La Cgil ha proposto un'imposta di solidarietà: un aumento di aliquota dal 43 al 48 per cento sui redditi superiori ai 150mila euro. L'extra-gettito servirebbe a finanziare interventi in favore di disoccupati e precari. Misure simili sono già state adottate nel Regno Unito e Stati Uniti. Tuttavia, nel nostro paese non è probabilmente la risposta più appropriata alla crescita delle disuguaglianze perché toccherebbe di fatto solo il lavoro dipendente, senza incidere sull'evasione fiscale. Ma è ora che il problema della distribuzione del reddito torni in primo piano.
Negli Stati Uniti, come promesso da Barack Obama in campagna elettorale, il President’s Budget presentato il 26 febbraio prevede sgravi per i redditi bassi e medi e varie misure volte ad accrescere il carico fiscale di quelli alti: un aumento delle aliquote sugli ultimi due scaglioni di reddito (rispettivamente dal 33 al 36 per cento e dal 35 al 39,6 per cento) e un aumento dell’aliquota massima su dividendi e capital gain dal 15 al 20 per cento. Nel Regno Unito è stata introdotta un’aliquota d’imposta del 45 per cento (dal precedente 40 per cento) per i redditi superiori a 150mila sterline. A questo si aggiunge un dimezzamento della “personal allowance”, l’ammontare su cui non si paga imposta, per i redditi superiori a 100mila sterline e la sua totale eliminazione per redditi superiori a 140mila sterline. In Germania, il partito socialdemocratico ha proposto un aumento dell’aliquota dal 45 al 47,5 per cento per i redditi di persone singole superiori ai 125mila euro e su quelli di coppie con reddito complessivo superiore a 250mila euro.
FACCIAMO DUE CONTI
I dati relativi alle dichiarazioni dei redditi per l’anno 2005, gli ultimi disponibili, ci dicono che i contribuenti italiani con reddito superiore a 150mila euro erano a quella data circa 115mila, con un reddito medio di circa 280mila euro. Rappresentavano lo 0,28 per cento della popolazione dei contribuenti. Un’aliquota al 48 per cento dovrebbe generare un extra-gettito complessivo di circa 750 milioni di euro l’anno. L’ammontare potrebbe in realtà essere più alto considerando che dal 2005 il numero di contribuenti con reddito superiore ai 150mila euro, nonché i loro redditi, saranno verosimilmente aumentati. Nello stesso tempo si ignorano qui completamente eventuali effetti delle aliquote sui redditi pre-tax. Nel complesso, l’ordine di grandezza del potenziale extra-gettito, più basso di quanto stimato dalla Cgil, è leggermente inferiore ma complessivamente simile a quello stimato dai socialdemocratici tedeschi per la loro proposta (un miliardo di euro) o dal governo britannico per la sua riforma (un miliardo e duecento milioni di sterline). Il sacrificio aggiuntivo medio richiesto ai contribuenti con reddito superiore a 150mila euro sarebbe di circa 6.500 euro l’anno. Il sacrificio è ovviamente crescente nel reddito: un individuo con un reddito di 160mila euro, ad esempio, verrebbe a pagare 500 euro in più all’anno, con un reddito di 200mila euro si pagherebbero 2.500 euro in più e così via.
I PRO E I CONTRO
Ci sono diverse ragioni che nell’attuale face recessiva si possono addurre a supporto di un aumento delle aliquote marginali sui redditi alti e, più in generale, in favore di un aumento del grado di progressività delle imposte. La prima e più importante è che, a causa del nostro elevato debito pubblico, l’Italia dovrà, più di altri paesi, affrontare la crisi cercando di puntare il più possibile su manovre fiscali che siano con “bilancio in pareggio”, ossia che incidano poco sui conti pubblici. Fra queste andrebbe annoverato anche l’aumento della progressività. A parità di gettito, sposta risorse da individui a reddito elevato verso individui a reddito più basso. Questo significa che le risorse vengono spostate verso i cittadini con una più alta propensione al consumo. Una maggiore progressività impositiva provoca pertanto uno stimolo dal lato della domanda aggregata. Analogo, e anche più incisivo in un contesto di crescente disoccupazione, è l’effetto che si può ottenere spostando risorse dai redditi molto alti verso i disoccupati che non hanno accesso agli ammortizzatori sociali. Ad esempio i 750 milioni all’anno dell’imposta di solidarietà sarebbero sufficienti a pagare un sussidio mensile di 500 euro per 125mila disoccupati.
La tipica controindicazione ad aliquote marginali elevate è invece che possono introdurre distorsioni, disincentivando offerta di lavoro e investimenti. Se sul piano teorico non va sottovalutata, è anche vero che l’evidenza empirica sull’entità delle distorsioni resta ambigua. (1) Sicuramente siamo oggi lontani dalle aliquote punitive degli anni Settanta e dunque il problema delle distorsioni è nel complesso meno urgente, particolarmente nell’attuale emergenza recessiva in cui incentivare l’offerta appare secondario rispetto a stimolare la domanda (si pensi, ad esempio, all’inutilità della detassazione degli straordinari).
Ci si potrebbe anche spingere fino ad affermare che la progressività danneggia esattamente le fasce di reddito più basse. In altri termini, la creazione di reddito da parte degli individui più produttivi, che risulterebbe più alta se non ostacolata da meccanismi redistributivi, dovrebbe innestare un processo di trickle-down, con ricadute positive su tutta la popolazione. Se così fosse, un aumento della progressività non servirebbe affatto da stimolo alla domanda aggregata. Pur senza la pretesa di stabilire rapporti di causalità, è tuttavia difficile riconciliare quello che è successo nel recente passato con l’ipotesi del trickle-down. Dagli anni Ottanta a oggi sia la povertà che le disuguaglianze di reddito sono aumentate in maniera considerevole in tutti i paesi sviluppati: la media dell’indice di disuguaglianza di Gini dei redditi disponibili nei paesi Ocse è aumentata di quasi il 10 per cento, mentre la percentuale di poveri, ovvero con reddito inferiore a metà del reddito mediano, è cresciuta dal 9,3 al 10,6 per cento della popolazione. Tutto ciò mentre la quota di reddito dell’1 per cento più ricco della popolazione è tornata ai livelli di settanta anni fa sia negli Stati Uniti che nel Regno Unito. (2) Non è un caso se gli sforzi recenti di molti studiosi si sono concentrati esattamente sull’evoluzione dei redditi top, ossia sull’1 per cento più ricco della popolazione, dove si è accumulata la maggior parte della recente crescita dei redditi. (3) E nessuna meraviglia se il partito democratico negli Usa e il partito laburista nel Regno Unito sono tornati a porre l’accento sulla necessità di politiche di redistribuzione del reddito più incisive. (4)
Tornando a casa nostra, è bene notare che l’Italia ha un livello di disuguaglianza dei redditi fra i più elevati tra i paesi sviluppati, ha un livello di povertà ben superiore alla media dei paesi Ocse ed è uno dei paesi in cui la disuguaglianza è cresciuta maggiormente negli ultimi venti anni.
Quanto detto fin qui non implica affatto che l’imposta di solidarietà sia la risposta più appropriata alla crescita delle disuguaglianze nel nostro paese: la proposta della Cgil toccherebbe di fatto solo chi le tasse le paga, ossia prevalentemente il lavoro dipendente, per quanto ben remunerato. In realtà è sempre più chiaro che la possibilità di attuare politiche redistributive più incisive passa inevitabilmente dal crocevia della lotta all’evasione, su cui invece siamo in piena retromarcia. Ècomunque del tutto naturale nel contesto attuale e in linea con quanto succede nei maggiori paesi avanzati, che il problema della distribuzione del reddito torni a occupare un posto di rilievo nel dibattito di politica economica.
(1)Si veda al riguardo il libro di Peter Lindert “Growing Public”, Cambridge University Press, 2004.
(2) Questi dati sono tratti dal recente rapporto dell’Ocse“Growing Unequal?”.
(3) Si veda ad esempio il libro di Anthony Atkinson e Thomas Piketty Top Incomes over the 20th century, Oxford University Press, 2007.
(4)Si veda per pura curiosità la figura 9 del President’s Budget presentato dall’amministrazione Obama il 26 febbraio.
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