La crescita economica, intesa come produzione senza fine di merci, è un’idea ormai superata. Il PIL è un simulacro al quale sono attribuite proprietà che, per come è stato pensato, non gli possono appartenere. Il PIL rappresenta infatti la somma di “beni e servizi” prodotti e venduti in un dato periodo di tempo in un paese, e non può rappresentare una misura del benessere e della qualità della vita di una nazione (Kuznets, l’inventore del PIL, avvertiva che “il benessere di una nazione non può essere neanche approssimato da una misura del reddito nazionale” soprattutto quando l’economia è sviluppata e come “occorresse distinguere tra la quantità e la qualità della crescita, tra i suoi costi e ricavi della crescita, facendo attenzione alle conseguenza di lungo periodo. Gli obiettivi di maggior crescita devono specificare più crescita per chi e per cosa“).
Cosa facilmente intuibile, se si pensa che è stato calcolato che quasi il 25% del PIL dei paesi sviluppati è destinato alla produzione di spazzatura e al trasporto (inquinante) di merci. Nonostante ciò, l’economia tradizionale crede che la crescita economica sia sempre buona e che bisogna far il possibile per aumentare il PIL: una sorta di mantra della crescita.
Poiché i politici credono che aumentare il PIL equivalga ad un aumento del benessere, si è diffuso una sorta di credo secondo cui la crescita è comunque buona. Non si considerano gli effetti della crescita sull’ambiente e nemmeno il fatto che gli ecosistemi ci forniscono a costo zero servizi che poi, con costi altissimi, tentiamo di ripristinare. Non si considera che questi servizi, che essendo senza prezzo di mercato, cioè non scambiabili, non sono conteggiati nel PIL, vengono privati o ridotti fortemente alle generazioni future (e presenti). Questi servizi - regolazione del clima e dei gas atmosferici, decomposizione e assorbimento dei rifiuti, controllo delle piene, formazione dei suoli, impollinazione, ecc. - hanno un valore inestimabile e in nessun modo potrebbero essere sostituiti qualora fossero degradati o distrutti in modo irreversibile. Così guardiamo distratti alla perdita di biodiversità (la crescita esponenziale della popolazione e dei consumi stanno avvicinandoci ad un collasso ecologico che causa estinzioni a ritmi elevatissimi, estinzioni di massa a tassi 1000 volte superiori al “normale”), alla deforestazione e ai conseguenti effetti che provoca sui suoli (erosione, instabilità dei versanti, desertificazione, salinizzazione, ecc.), nell’atmosfera ( sulla regolazione del clima alle varie scale) sulle comunità umane (migrazioni di massa a causa di desertificazione). A fronte di tutto ciò, è paradossale che si lavori poco meno di un secolo fa, mentre la produttività è aumentata di 20 volte e la distribuzione della ricchezza è la stessa di quella dell’Egitto dei faraoni.
Un nuovo modello di sviluppo si deve pensare, se non per noi, per i nostri figli.
Che il PIL non sia un indicatore del benessere lo si sa almeno dalla sua invenzione. In realtà è stato pensato come indicatore delle merci e dei servizi prodotti senza alcuna relazione, nemmeno indiretta, col benessere di una popolazione. Economisti non ortodossi, come Daly e Cobb, hanno proposto misure alternative, come l’ indice di sviluppo sostenibile (ISWE: http://en.wikipedia.org/wiki/ISEW). Tecnicamente è un indice che del PIL usa il consumo personale aggiustato per varie misure del benessere, quali la distribuzione del reddito, l’inquinamento, le infrastrutture, il traffico ed il deterioramento del capitale naturale che ricadrà sulle spalle delle future generazioni.
In tal modo gli indici del PIL e dell’ISEW possono divergere: il PIL potrebbe crescere a danno dell’ambiente, ad esempio, così tanto da far diminuire l’ISEW. Esistono varie applicazioni dell’indice di sviluppo e confronti col PIL. Come tutti sappiamo, pur fingendo di non sapere, i risultati del confronto sono drammatici (http://community.foe.co.uk/tools/isew/international.html).
Schumpeter distingueva tra crescita, l’aumento quantitativo dell’economia, dallo sviluppo, un cambiamento qualitativo della stessa derivante da innovazioni, conoscenza e consapevolezza di ciò e perché si produce. Insomma, una economia che elefanticamente cresce, diventa sempre più grossa e vorace del bene ambiente contro una che si sviluppa divenendo meno fragile e attenta al benessere dei suoi protagonisti.
di Mauro Gallegati e Raffaella Rose
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