La strategia anti crisi dell'Italia è ispirata alla massima cautela: misure dell'ordine dello 0,3 per cento del Pil contro il 7 per cento di altri grandi paesi. Si dice per tener conto del debito pubblico. Ma altrettanto rigore non è stato dimostrato in altre vicende. E' una situazione paradossale in cui il governo non ha né una politica fiscale proporzionata alla recessione che stiamo attraversando né una di stabilizzazione strutturale del debito. Ci guadagna solo il ministro dell'Economia, che dall'ambiguità vede aumentare il suo potere.Quello che non si capisce della politica del ministro Tremonti è la strategia di politica fiscale
che la ispira. Il mondo sta andando incontro alla seconda più profonda recessione degli ultimi settanta anni e i paesi importanti, a cominciare dagli Stati Uniti per seguire con Francia e Inghilterra sul fronte occidentale, e Cina su quello orientale, rispondono varando misure anticicliche, e anti crisi finanziaria, di raro importo.
LA CAUTELA DEL MINISTRO
La Cina adotta un piano di nuovi investimenti pubblici, scaglionati nel tempo ma annunciati già oggi, di 7 punti percentuali di Pil. Cifre analoghe vengono impegnate in Inghilterra e negli Stati Uniti. L’Italia è cauta, molto cauta. I provvedimenti fiscali di stabilizzazione del ciclo adottati l’altro ieri dal governo sono dell’ordine dello 0,3 per cento del Pil, una cifra in assoluto modesta, irrilevante rispetto agli eventi da contrastare.
Questa cautela viene giustificata dal ministro del Tesoro con l’indubitabile dimensione del debito pubblico che grava sul paese e l’incombere dei vincoli del Patto di stabilità.
Vi sono tre ragioni per cui questa ragione non convince. Primo, altrettanto rigore non è stato mostrato allorché si è trattato di trasferire sul bilancio pubblico il costo dell’operazione Alitalia che poteva essere evitato vendendo la compagnia sul mercato. Né tanto meno quando si è rinunciato al gettito Ici per onorare una promessa elettorale a spese dell’erario. Avveniva solo pochi mesi fa: lo stock di debito pubblico era allora altrettanto gravoso quanto lo è oggi. E l’impatto sul bilancio pubblico di quelle operazioni è dello stesso ordine di grandezza dei correnti provvedimenti anti-recessione.
Secondo, il governo italiano accentua l’importanza del rigore proprio quando l’Europa, conscia della grave recessione, è disposta a derogare in via temporanea ai vincoli del Patto. È possibile che vi siano vantaggi a stabilizzare il debito durante una clamorosa recessione, ma occorrerebbe dimostrarlo.
Terzo, se la stabilizzazione del debito fosse per il ministro Tremonti il problema principale dell’Italia (io penso lo sia), oggi come ieri, ci si aspetterebbe dal governo un piano pluriennale di rientro, con una strategia quantificata e un impegno a seguirla, costi quel che costi, anche davanti alla più grave recessione cui il paese possa andare incontro. Il piano non c'è, e se c’è riposa in qualche angolo della mente del ministro.
È questa una situazione paradossale in cui il governo non ha né una politica fiscale proporzionata al ciclo che si sta attraversando né una politica fiscale di stabilizzazione strutturale per il medio termine adeguata al gravissimo indebitamento del paese.
A CHI GIOVA L'AMBIGUITÀ
Vi sono due possibili interpretazioni della grande cautela del ministro del Tesoro nel varare significative politiche fiscali anticicliche: una benevola e l’altra maligna. La prima è che il ministro sia molto restio a impegni sostanziali di spesa perché, saggiamente, anticipa uno scenario in cui il governo possa essere chiamato a intervenire pesantemente sulle banche e con il debito pubblico che ci ritroviamo è prudente affrontare un simile scenario conservando qualche margine di manovra. Vi sono segni che c’è del vero in questo, a cominciare dal fatto che il governo è stato cauto anche a non prendere impegni significativi su quel fronte.
L’alternativa, quella maligna, è che la cautela di oggi serva a pre-costituire una riserva di risorse da usare all’occorrenza per adottare politiche di gestione del consenso, come quelle appena varate, o iniziative per risolvere frizioni interne alla maggioranza di governo, ad esempio i costi del federalismo fiscale. La gestione della vicenda Alitalia così come le scelte sull’Ici sono evidenza forte a supporto di questa interpretazione.
L’ambiguità in cui oggi naviga la politica fiscale offre spazio a entrambe le interpretazioni. Il paese ne soffre perché manca di un riferimento certo sulla politica fiscale a medio e lungo termine; ci guadagna il ministro perché consegue molti margini di discrezionalità e quindi di potere. Ne farà buon uso?
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