Agli analisti del mercato interessa non tanto la dimensione del debito pubblico, quanto la capacità di un paese di rimborsarlo. Ora, il problema dell'Italia è per l'appunto la scarsa crescita. E la vera debolezza della politica del governo è proprio la mancanza di una strategia per superare la recessione e rimetterci su un sentiero di sviluppo sostenuto. Serve un percorso di riduzione della pressione fiscale e della spesa, accompagnato da un piano di investimenti pubblici. L'attuazione può essere graduale, ma le misure devono essere certe, permanenti e ben strutturate.
Quando il ministro del Tesoro di un paese è costretto a fare pubblicità perché i risparmiatori sottoscrivano i suoi titoli del debito pubblico è un brutto segno. Significa che qualcosa scricchiola.
MINISTRI, BOT E CCT
Nel tentativo di giustificare la dimensione minima dei provvedimenti presi pochi giorni fa a sostegno della domanda, il ministro Tremonti ha messo in evidenza la possibilità che nei mesi a venire il governo possa incontrare difficoltà nel collocare titoli del debito pubblico. Politiche fiscali “facili” (leggi espansive) non sono quindi ammesse perché pregiudicherebbero il collocamento. Qualcuno nel governo, forse pensando di dare una mano al ministro rafforzando la sua argomentazione, ha evocato l’Argentina, salvo poi rendersi conto di quanto pericoloso sia quell’accostamento, e ritrattare. Il ministro ha così dovuto rassicurare gli investitori reclamando: "Comprate i titoli di Stato italiani che sono certamente i migliori al mondo (..) i Bot e i Cct sono in tutti i paesi la cosa più solida e sicura, comprate i titoli di Stato che sono semplici". Infatti, per poterli collocare occorre pagare un premio per il rischio di 140 punti base superiore ai Bund tedeschi: a occhio e croce, vuol dire che i mercati annettono una (maggior) probabilità di default al debito pubblico italiano dell’1,5 per cento in più rispetto a quello tedesco. Ognuno vanta la sua mercanzia, questo è comprensibile. Ma perché il vanto sia credibile occorre esaltare quegli aspetti non facilmente confutabili, altrimenti si rischia di ottenere l’effetto opposto e generare sospetti nei risparmiatori. Ci si limiti a sottolineare la semplicità di Cct e Btp.
QUANDO IL DEBITO È SOLIDO
Ma ritorniamo alla difesa che il ministro Tremonti ha fatto della sua politica fiscale. L’argomento implicito nella linea di intervento scelta dal governo è che espandere il disavanzo corrente per fronteggiare il ciclo è un cattivo segnale mandato al mercato. È possibile. Ma gli analisti di mercato, diversamente dai burocrati di Bruxelles, raramente sono interessati al buco di bilancio di un anno. Quello che veramente interessa loro è la capacità di rimborso del debito, per quanto questo possa essere elevato. L’ampliamento dello spread non riflette la dimensione del debito pubblico, che è esattamente la stessa di un anno e mezzo fa, ma il deterioramento della capacità del paese di farvi fronte. Il ministro sostiene pomposamente che "Il debito pubblico italiano è assolutamente solido, [perché] la Repubblica italiana garantisce su quel debito", ma la capacità di rimborso dipende dalla capacità di crescita del paese negli anni a venire: senza Pil e quindi senza gettito non c’è garanzia della Repubblica che tenga.
Il problema con la politica della prudenza è che è vero che limita il fabbisogno finanziario del governo, ma allo stesso tempo, se contribuisce ad aggravare la recessione, rischia di minare la sua capacità di onorare il debito. Questo è il vero tallone di Achille del nostro paese, il fatto che da dieci anni a questa parte cresce sistematicamente meno degli altri e il gap, stando alle previsioni, si aggraverà ulteriormente durante questa recessione. La vera debolezza della politica governativa è proprio la mancanza di una strategia per superare la recessione e rimettere il paese su un sentiero di crescita sostenuta. Se si vuole recuperare credibilità nei mercati finanziari, il governo deve non solo sviluppare una politica di rientro, ma deve averne una capace di assicurare che nel medio termine il paese ritorni a crescere e nel breve che non venga travolto dalla recessione, come accadde, appunto, all’Argentina.
POLITICHE PER LA CRESCITA
Mosse queste critiche, la domanda è se esista un modo per disegnare politiche fiscali più incisive sotto il profilo del sostegno ciclico senza con questo compromettere, anzi possibilmente rafforzando, il risanamento fiscale e aiutando la crescita di medio periodo. Quest’ultimo requisito è di primaria importanza: la recessione che abbiamo di fronte lascerà i suoi segni, ma la perdita di reddito che ne risulterà sarà ben poca cosa rispetto a quella che l’Italia ha subito negli ultimi dieci anni a causa del tasso di crescita sistematicamente più basso rispetto al resto dell’Europa.
Lavoce.info ha avanzato da tempo suggerimenti che vanno in questa direzione. Si tratta di un mix di tagli di imposte e di spesa pubblica corrente permanenti, accompagnati da riqualificazioni della spesa e adottati con una opportuna tempistica. Una versione di queste proposte è la seguente.
Primo, si vara una riduzione piccola, ma permanente, delle aliquote fiscali, eventualmente più limitata nei primi anni e più marcata nei successivi. Se la riduzione delle aliquote è piccola, è piccolo anche l’impatto sul gettito corrente e quindi sul disavanzo pubblico corrente: non provoca perciò deviazioni gravi rispetto ai requisiti imposti dal Patto di stabilità. Ma è permanente e le famiglie terranno conto anche delle future riduzioni di imposte nel decidere i piani di spesa correnti: tutto ciò avrà un effetto di un certo rilievo sulla domanda odierna di consumi, contribuendo a contrastare la recessione.
Secondo, si annuncia oggi un piano di riduzioni permanenti della spesa pubblica corrente, individuando in dettaglio quali voci verranno tagliate. L’entità dei tagli deve essere legiferata oggi, ma realizzata da qui a due anni. Lo scopo di stabilirli per legge è di impegnare il governo e quindi dare la garanzia che il bilancio dello Stato rimane sotto stretto controllo. Il varo ritardato dei tagli ha invece un triplice obiettivo: primo, adottarli quando la recessione sarà, si spera, in buona parte superata ed evitare che pesino eccessivamente sulla domanda corrente; secondo, dare modo alle persone che dipendono da quei tagli (imprese, lavoratori del pubblico impiego, eccetera) di reagire e adattarsi, e quindi limitarne l’impatto sulle decisioni di spesa correnti; terzo, dare al governo il tempo per decidere come rendere operativi i tagli con un serio programma di riforme in modo da evitare di eliminare spese che possono compromettere il funzionamento di servizi pubblici importanti.
Terzo, varare un piano di investimenti pubblici, deliberati oggi, ma di nuovo, implementati non prima di due anni. La ragione dell’attuazione differita è analoga a quella precedente: scegliere bene dove investire, anziché farlo a caso. Le famose spese di keynesiana memoria per scavare buche e poi riempirle sono un lusso che il nostro paese non può permettersi. Ma investimenti pubblici accompagnati da serie riforme che ne assicurino una elevata produttività è quanto di meglio il governo possa fare per contribuire a dare una prospettiva di crescita al paese. Il programma di investimenti ha un duplice ruolo: compensare in parte il calo di domanda dovuto alla minore spesa pubblica, ma soprattutto accrescere la produttività del sistema e consentire alle imprese di usufruire di migliori infrastrutture, facilitandone il processo di crescita.
Ovviamente, perché queste misure siano compatibili con il mantenimento del disavanzo ai livelli richiesti dal Patto di stabilità, anzi possibilmente con qualche miglioramento graduale, è necessario che il calo di spesa pubblica corrente compensi il calo del gettito fiscale prodotto dalle minori aliquote e l’incremento dell’investimento pubblico.
Ci rendiamo conto che un siffatto programma è più facile da scrivere che da realizzare, ma davanti a problemi di tale dimensione, un paese deve pensare in grande. Questa maggioranza di governo ha il potere per fare quanto è necessario. Ma occorre la volontà di farlo.
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