13/01/09

La riforma della giustizia che piace a Cosa nostra.


Riporto il testo a firma del magistrato Luca Tescaroli sulla riforma della giustizia, pubblicato su Repubblica Palermo il 31 dicembre 2008.

L’anno che si sta chiudendo ha visto riesplodere le tensioni tra settori della politica e magistratura, a seguito di inchieste e provvedimenti restrittivi nei confronti di detentori del potere di numerose città italiane la cui notizia è prepotentemente deflagrata nei media. Come conseguenza si è riacceso il confronto sulla riforma della giustizia che ha registrato convergenze da parte di esponenti di gruppi politici contrapposti, sfruttando come sponda le gravi vicende che hanno contrapposto gli uffici giudiziari di Salerno e Catanzaro, che certamente costituiscono un fatto eccezionale.

L’idea di fondo che governa le menti di molti autorevoli esponenti politici è quella di imbrigliare l’azione del pubblico ministero e di limitare l’uso di uno dei più efficaci mezzi di ricerca delle prove: l’intercettazione. Si è detto di rendere non più obbligatoria l’azione penale, di attribuire al Parlamento la scelta dei reati da perseguire, di separare le carriere tra giudici e pubblici ministeri, di togliere il vincolo di dipendenza dal pm alla polizia giudiziaria, che dipende dalla compagine governativa, consentendole di indagare autonomamente dopo la presentazione della notitia criminis.

Si tratta di progetti che sembrano portare avanti la riforma della giustizia adombrata nel gelliano “Piano di rinascita democratica” che profetizzava la responsabilità del guardasigilli verso il Parlamento sull’operato del pm e la separazione delle carriere. Quanto alle intercettazioni, la maggioranza governativa appare proiettata a limitarne l’uso a una larghissima parte di reati, che comporterebbe di fatto la loro non perseguibilità.
Tutto ciò appare singolare se si pensa che il problema serio della giustizia penale è rappresentato dall’infinità di tempo che occorre per ottenere una pronuncia sulla responsabilità dell’imputato, che un meccanismo bizantino farraginoso e complicatissimo, chiamato processo, sembra ostacolare piuttosto che agevolare. Uno stato di cose che genera inefficienza del servizio giustizia e che si traduce in un discredito della magistratura, contribuendo ad allontanare il consenso di molti cittadini, conquistato nell’ultimo ventennio. Sorge il sospetto che a qualcuno ciò non dispiaccia affatto e che anzi sia gradito.

L’impatto di una nuova regolamentazione di funzionari incapaci di rendere il servizio per cui sono remunerati è certamente meno traumatico nel contesto sociale e sarà difficile trovare chi sia pronto per mobilitarsi e impedire l’eliminazione dell’indipendenza del pubblico ministero, garanzia di uguaglianza per tutti i cittadini.
È singolare il fatto che nessuno faccia riferimento, invece, all’esigenza di riformare certa politica, protagonista di un crescente malgoverno in numerosi settori nevralgici, sempre più pervasa da corruttela, avviluppata soprattutto al Sud a un clientelismo becero, e di impedire che imputati condannati per fatti gravi siedano in Parlamento, ove con il loro voto contribuiranno a riformare la giustizia.

In questo contesto Cosa nostra rimane spettatrice attenta e interessata, pregustando i doni, forse inaspettati, che otterrà laddove le annunciate riforme legislative dovessero essere attuate. L’organizzazione necessita del sostegno dell’uomo politico e del pubblico amministratore per raggiungere i propri obiettivi. Pensate quale vantaggio potrebbe ottenere dall’impossibilità di intercettare i reati tipici della pubblica amministrazione (si pensi alla corruzione o alla turbativa d’asta) propedeutici all’instaurazione di quell’anello di collegamento con i centri di potere. Molte indagini nei confronti di amministrazioni locali hanno consentito di scoprire relazioni con mafiosi e alcuni investigazioni e processi di mafia hanno preso le mosse da indagini nei confronti di appartenenti ad amministrazioni locali.

Pensate a cosa può significare modificare i rapporti fra pm e polizia giudiziaria. Dal momento che la polizia giudiziaria dipende dal governo, potrebbe derivarne che in concreto si faranno solo certe indagini e che potrebbero agevolmente essere impediti i controlli di legalità indirizzati verso determinati interessi cari alla compagine governativa e, al contempo, alla forza mafiosa dominante.
Immaginate cosa può voler dire separazione delle carriere. Un pm che dovrà rispettare le direttive impartitegli dal potere esecutivo? E se venisse previsto di essere feroce con taluni e di essere morbidi con altri, magari verso chi si trova a coltivare rapporti di amicizia o frequentazione con i leader della compagine governativa?

Pensate, poi, cosa può comportare un pm piegato all’esecutivo in un’indagine nei confronti di un colletto bianco, che coltiva legami con esponenti mafiosi. Una situazione che renderà piuttosto difficile solo iniziarla, che consiglierà al magistrato molta prudenza per evitare ripercussioni negative nella progressione in carriera.
Mi auguro che prevalga il senso di responsabilità e che tali conseguenze vengano scongiurate. Spero che nel nuovo anno si pensi, invece, a potenziare l’apparato repressivo (per debellare il crimine organizzato che controlla e condiziona oltre un terzo del Paese e della sua economia), a snellire e a riformare il processo penale, cancellando una serie di inutili formalismi travestiti da garanzie, riducendo le impugnazioni, garantendo che le sanzioni penali irrogate vengano espiate, impedendo che i mafiosi condannati ritornino troppo presto in libertà, continuando a esercitare il potere sul territorio che esercitavano prima del loro arresto.

Luca Tescaroli

Sostituto procuratore a Roma. Già pm nel processo per la strage di Capaci e in quello sulla morte del banchiere Roberto Calvi.




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Firma la petizione per dire NO al NUCLEARE.
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