05/01/09

L'ETA' DELLA PENSIONE

La proposta del ministro Brunetta di elevare a sessantacinque anni l'età pensionabile femminile è corretta, ma parziale. Occorre un riordino generale dei requisiti di accesso alla pensione che rimuova gli errori del protocollo del 23 luglio 2007, tanto gravi quanto quelli in precedenza commessi dal governo Berlusconi. Il modello Ndc italiano è oggi l'unico in Europa a non fare esclusivo riferimento a una fascia d'età pensionabile indifferenziata per genere. Ne risulta offeso il principio di flessibilità, attributo fondamentale del sistema contributivo.

Il modello pensionistico Ndc (notional defined contribution), in Italia noto come “sistema contributivo”, fu sviluppato in Europa nei primi anni Novanta allo scopo di garantire la corrispettività, che gli svedesi chiamano actuarial fairness, ovvero la corrispondenza fra contributi e prestazioni. In verità, il modello persegue una molteplicità di ulteriori obiettivi, fra i quali la flessibilità del pensionamento intesa come libera scelta dell’età di uscita entro una fascia predeterminata. La flessibilità si concilia con la corrispettività in quanto chi sceglie di andare in pensione prima lo fa “a proprie spese”, accettando una prestazione inferiore che, percepita più a lungo, restituisce pur sempre i contributi versati.

IL PUNTO DELLA FLESSIBILITÀ

La flessibilità fu cruciale per l’accoglimento del modello contributivo nell’Italia del 1995, ancora impegnata a estrarre dal suo fianco la spina dolente delle pensioni di anzianità, passate indenni sotto le forche caudine della riforma Amato del 1992. Nel 1994 ci aveva provato il primo governo Berlusconi proponendo “disincentivi” che riuscirono solo a portare in piazza un milione di lavoratori. Un anno dopo, il modello Ndc offrì al governo Dini una ghiotta alternativa professando l’idea di una “pensione flessibile” nel cui alveo si dissolvevano i tradizionali istituti dell’anzianità e della vecchiaia.
La riforma Ndc italiana, la prima in ordine cronologico, optò per la fascia compresa fra 57 e 65 anni, mentre le successive riforme europee adottarono, più opportunamente, fasce meno precoci. In particolare, la Svezia previde un’età minima di 61 anni e la Polonia di 65. Ovunque fu adottata una fascia indifferenziata per genere. La ragione è semplice: in un modello pensionistico in cui l’anticipazione del pensionamento è a spese dei lavoratori, piuttosto che del sistema, una fascia maschile più avanzata di quella femminile si risolverebbe in una insensata “tutela” degli uomini, cui non sarebbero consentiti oneri così gravi come quelli sopportabili dalle donne.
La riforma Dini disciplinò la transizione, destinata a protrarsi fino al 2035, in piena coerenza con la scelta di regime. Per accedere alla pensione di anzianità, prima ottenibile solo con 35 anni di contributi, fu addizionalmente richiesta l’età minima di 57 anni per evitare che i lavoratori “retributivi” e “misti” maturassero il diritto a pensione in età inferiore a quelli “contributivi”. Meno felice fu l’intervento sull’età femminile di vecchiaia: i 65 anni del settore pubblico furono ricondotti ai 60 che la riforma Amato aveva stabilito per il settore privato. L’opposto sarebbe stato preferibile, ma la concessione non snaturò il significato generale delle scelte compiute che, a regime, avrebbero posto fine a ogni differenziazione per genere delle regole di uscita.

COSTRUIRE UN DISEGNO ORGANICO

A distanza di pochi anni, due governi sono reintervenuti in materia. Le regole oggi in vigore, pattuite col protocollo del 23 luglio 2007, si rivolgono a tutti i lavoratori senza più distinguere quelli retributivi e misti da quelli contributivi. A far tempo dal 2013, gli uomini potranno andare in pensione a 61 anni d’età con 36 di anzianità, oppure in età compresa fra 62 e 64 anni con 35 di anzianità, oppure a 65 anni con qualunque anzianità. Le donne potranno andare in pensione fra 60 e 65 anni con qualunque anzianità. Infine tutti i lavoratori, a prescindere dal genere, potranno andare in pensione a qualunque età vantando un’anzianità di 40 anni.
Così stando le cose, il modello Ndc italiano si distingue per essere l’unico a non fare esclusivo riferimento a una fascia d’età pensionabile indifferenziata per genere. Ne risulta offeso il principio di flessibilità che, oltre a essere internazionalmente riconosciuto come un connotato imprescindibile del modello Ndc, era stata una delle ragioni che avevano indotto l’Italia a scegliere quel modello.
Se preoccupazioni di bilancio (impreviste nel 1995?) consigliavano di reintervenire, occorreva farlo preservando il metodo di lavoro inaugurato dal governo Dini. In primo luogo, la fascia d’età pensionabile dei lavoratori contributivi doveva essere ridisegnata e non abbandonata in favore di regole eccentriche, ma soprattutto estranee alla logica Ndc. Ragionevole sarebbe stato mutuare la fascia svedese da 61 anni a 67. In secondo luogo, occorreva disciplinare coerentemente la transizione e perciò:
· per la pensione di anzianità richiedere, in aggiunta ai 35 anni di contribuzione, l’età minima della nuova fascia,
· all’interno di quest’ultima, scegliere la nuova età di vecchiaia dei lavoratori retributivi e misti.

Ove si fosse mutuata la fascia svedese, l’età di vecchiaia maschile (65 anni) sarebbe stata “tecnicamente confermabile”, mentre quella femminile (60 anni) avrebbe dovuto salire di almeno un anno.
A Renato Brunetta vorrei amichevolmente suggerire di inquadrare la sua proposta, portatrice di valori condivisibili sul piano generale, in un disegno organico che ponga rimedio agli errori commessi e restituisca “senso alle cose”.

di Sandro Gronchi

Fonte articolo

Firma la petizione per dire NO al NUCLEARE.
Condividi su Facebook

Nessun commento:

Posta un commento

Visto lo spam con link verso truffe o perdite di tempo i commenti saranno moderati. Se commenti l'articolo sarà pubblicato al più presto, se invece vuoi lasciare link a siti porno o cose simili lascia perdere perdi solo tempo.