Luca “il superpagato (amministratore delegato di Pagine Gialle)” Majocchi
Non si può sempre vincere. E la regola vale anche per i migliori. Come l’amministratore delegato uscente (cioè con un piede già sulla porta) di Seat Pagine Gialle: al secolo, Luca Majocchi. Che nella classifica dei manager italiani più pagati del 2008 - stilata qualche giorno fa da “il Sole 24 ore” - ha dovuto accontentarsi di arrivare secondo. Con uno stipendiuccio da poco meno di 8 milioni di euro. Ma che in Borsa ha davvero stracciato tutti. Le azioni della società delle Pagine Gialle (e pure di quelle Bianche) - secondo i calcoli della agenzia di stampa Apcom - l’anno scorso hanno perso la bellezza del 78,4% del loro valore. Conquistando tra le cosidette “blue chips” - cioè le azioni delle imprese più importanti - la (poco) ambita maglia nera 2008.
Un doppio risultato di tutto rispetto. Ma non l’unico. Majocchi a fine giugno dovrebbe passare la mano a un nuovo amministratore delegato. E per questo incasserà quella buonuscita da 5,75 milioni di euro, che gli ha permesso di scalare la classifica degli stipendi extralarge (insomma: degli 8 milioni di euro di cui sopra, quasi 6 sono una specie di regalo d’addio). Ma prima di mettere mano al fazzoletto per salutare tutti, Majocchi ha chiuso davvero un anno da incorniciare. Sempre nel 2008 e sempre Seat Pagine Gialle ha chiuso il bilancio con una perdita secca di 179 milioni di euro. Sempre nel 2008 e sempre Seat Pagine Gialle ha visto calare il fatturato (da 1,45 miliardi del 2007 agli 1,37 miliardi dell’anno scorso). E sempre Seat Pagine Gialle, ma nel 2009 è pure dovuta ricorrere pure alla cassa integrazione. Scaricando - almeno in parte - il costo di quest’annata difficile sulle spalle dei soliti contribuenti poverazzi.
Insomma: una performance stupefacente. Che - nonostante il clima da “indignazione populista” e “sequestro” dei manager che spira tra Stati Uniti e Europa - non ha fatto gran rumore sulla stampa titolata italiota (ovvero sui soliti Corriere, La Stampa e Repubblica; per altro ultimamente in pieno orgasmo da terremoto). E che comunque il (quasi ex) amministratore delegato ha difeso a spada tratta. Con tanto di intervista a “Il Giornale”, cioè al quotidiano di Berlusconi Paolo, il fratello con più capelli (ma forse meno cervello) del più noto Silvio.
Da quelle pagine Majocchi ha espresso tutto il suo rammarico:
Il mio stato d’animo è quello di una persona che pensa di avere sempre svolto il proprio lavoro onestamente e si sente invece trattato come un ladro.
E ha raccontato, a modo suo, il suo 2008:
Il margine operativo lordo, cioè il risultato di gestione, è positivo di 610 milioni. Poi, però, ci sono gli oneri finanziari (il costo del debito, ndr) e nel 2008 oltre 200 milioni di svalutazioni di partecipazioni alcune delle quali risalgono a una decina d’anni fa, ai tempi della new economy. Per quanto riguarda il compenso, oltre al bonus e alla parte fissa, ci sono dentro 5 milioni concordati a titolo di clausola di non concorrenza: non è una buonuscita, ma un’assicurazione contro il rischio che io vada a lavorare per un concorrente
Una difesa che sa un po’ di tecnichese. Ma che - incredibile, ma vero - fa centro. Majocchi probabilmente ha proprio ragione. Ha fatto solo - e bene - il suo lavoro. E per capirlo basta fare alcuni passi indietro. E porsi una domanda.
Partiamo dalla domanda. Che è semplice semplice. In molti - soprattutto negli Stati Uniti - hanno polemizzato su bonus e maxicompensi vari. Ma in pochi si sono chiesti: perchè gli azionisti che controllano una società accettano di concedere ai loro supermanager dei superstipendi con delle superbuonuscite? Ecco: la risposta, in generale, non è facile da dare. Ma - forse - per il caso Seat, qualche indizio lo si può trovare. Facendo un salto nel passato.
E infatti: spulciando l’arichivio di Repubblica, salta fuori un articolo datato 28 maggio 2007 e firmato dalla giornalista Sara Bennewitz. Che ricostruisce per filo e per segno gli ultimi dieci anni della società. E fa l’elenco delle mani in cui è passata. Mani che hanno dato. Ma soprattutto preso.
Prima tappa. Fino a metà anni Novanta, la società delle Pagine Gialle apparteneva alla galassia delle imprese pubbliche. Poi nel 1997, le cose sono cambiate. Scriveva infatti Sara Bennewitz che in quell’anno:
il controllo dell’ azienda degli elenchi venne ceduto dal Tesoro a un gruppo di private equity e ad alcuni gruppi tra cui De Agostini per 1.658 miliardi delle vecchi lire (856 milioni di euro). Il Governo prese infatti Seat da una costola di Telecom che però rimase azionista della società e cedette il 61,7% del capitale a questo gruppo di nuovi azionisti riuniti dentro una finanziaria denominata Otto
Certo: i privati che subentrarono alla mano pubblica, pagarono una cifra robusta. Ma fecero - con l’aiuto dei loro manager - molto presto a recuperare la spesa. Perchè, sempre secondo Bennewitz, l’allora amministratore delegato Lorenzo Pelliccioli mise a segno una mossa geniale:
nel 1999 ricorse all’ indebitamento per distribuire ai soci Seat 2.038 miliardi di lire di dividendo (1.050 milioni di euro), ripagandosi così l’ intero investimento sostenuto da Otto per rilevare il controllo di Seat dal Tesoro
In altre parole: i nuovi proprietari con una mano tirarono fuori i soldi per comprare Seat. E con l’altra se li ripresero, indebitando la società. Un vero affare. E per di più facile facile. Anche da ripetere.
E infatti: nell’aprile del 2000, Pagine Gialle è tornata per poco tempo nelle mani di Telecom. Poi nel 2003 è stata di nuovo venduta a un gruppo di fondi di private equity (insomma: fondi di investimento). Luca Majocchi è diventato nuovo amministratore delegato. E il giochino puntualmente si è ripetuto. Come? Come al solito. Per la precisione, scriveva Sara Bennewitz che:
l’ 8 agosto del 2003 (Telecom, NdA) vendette agli attuali proprietari il 62% di Seat per 3,1 miliardi, una somma che valutava l’ intero gruppo circa 4,9 miliardi. E così quasi quattro anni fa Luca Majocchi assunse la guida della nuova Seat Pagine Gialle. Il prezzo pagato dai fondi di private equity fu di 0,598 euro per azione (cui seguì un’ Opa obbligatoria allo stesso valore). Poi nel maggio 2004, Seat distribuì un dividendo straordinario di 0,43 euro, nel 2005 una cedola ordinaria di 0,005 e nel 2006 di 0,007 euro
Risultato: “(…) tra super cedola e vendita del 12% del capitale del gruppo, (i fondi di private equity, ndA) in un anno avevano già recuperato l’ investimento iniziale e ora tutto quello che riusciranno a ricavare dalla futura valorizzazione di Seat sarà un profitto netto”, spiegava la giornalista di Repubblica.
Unico neo dell’intero ambaradan: per premiare - a colpi di dividendi - gli azionisti, Seat dovette indebitarsi ancora. E parecchio. Secondo un articolo - pubblicato il 19 marzo del 2008; sempre da Repubblica; e sempre firmato da Sara Bennewitz - Seat, quando nel 2004 è passata nuovamente dall’orbita Telecom ai fondi di private equity aveva circa 400 milioni di euro di indebitamento. Indebitamento che a fine 2008 è ancora stabilmente sopra quota 3 miliardi di euro. Del resto - e non a caso - solo il maxi dividendo del 2004 era costato (fonte: la solita Repubblica) ben 3,6 miliardi di euro.
Dunque: il superpagato amministratore delegato di oggi ha ragione. Lui ha fatto bene il suo lavoro. Gli azionisti sono stati remunerati. E lui pure. Se poi l’azienda non va come dovrebbe è a causa del debito. Che però qualcuno avrà pur fatto. E quindi: di chi è la colpa? Degli azionisti o dei manager?
Ai posteri (e ai lettori) l’ardua sentenza. E che vinca il peggiore.
Fonte articolo
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