Ci mancava solo il timore per una pandemia globale di influenza suina a deprimere ulteriormente le Borse e i mercati, spaventati dal fatto che questa emergenza sanitaria possa rivelarsi un terrificante volano per le incertezze che ancora regnano sovrane rispetto alle cifre e allo stato di salute reale di istituzioni finanziarie e governi.
Già, perché se il Fondo Monetario Internazionale ha detto molto, bisogna ammettere che non ha detto tutto. Ci ha detto, ad esempio, che le perdite totale dovute all’infezione di subprime e assets tossici vari toccheranno i 4mila miliardi di dollari (dopo stime iniziali che parlavano di 300, poi 600, poi timidamente 1000 e via in un crescendo quasi da rabdomante). Bene, ammesso che quella cifra non debba essere ulteriormente rivista al rialzo.
Non ci dice, però, che un fondo speculativo di prim’ordine come Hayman Advisers sta scommettendo proprio in questi giorni - e pesantemente, molto pesantemente - su un’ondata di bancarotte e ristrutturazioni di Stati come non si vedeva dal 1934, quasi tutte concentrate in Europa, il vero fulcro del leverage dissennato e dei conti fuori controllo. A rischio sono quegli Stati che non possono stampare moneta, che non hanno una moneta propria (l’Irlanda in testa, ma anche il disastrato Club Med di cui fa parte anche l’Italia) e l’Europa dell’Est, aree in cui si sono concentrate in massa i prestiti dei paesi dell’eurozona.
Per la divisione studi di Commerzbank, «ogni asta di bond in Europa si sta tramutando in un evento a rischio». D’altronde lo Stato dell’arte globale è sotto gli occhi di tutti, anche se il Fmi tende a nascondere certe cifre scomode. Gli assetti sono cambiati, Cina, Russia, i paesi produttori di petrolio e gli emerging markets asiatici non hanno più - come avevano negli anni della bolla - 1.3 miliardi di dollari di riserve da riciclare in buoni del tesoro Usa o bond europei.
Le banche centrali hanno perso 248 miliardi di reserve scendendo a quota 6.7 trilioni negli ultimi sei mesi. Il Venezuela, da solo, ha visto dimezzare le proprie reserve di un terzo a causa del crollo del prezzo del petrolio. La Cina, poi, ha deciso di investire il suo surplus mensile di 40 miliardi di dollari in infrastrutture interne pesanti - leggi miniere - invece che nell’enorme mercato del debito Usa.
Insomma, qualcuno vorrebbe danzare al ritmo della musica di sempre anche se questa è cambiata trasformandosi da un walzer e un de profundis. A New York si scommette sui default e si punta il dito sul cocktail formato da alto debito pubblico e dalle debolezze ancora da emergere di istituti come Royal Bank of Scotland, Hypo Real e Fortis, sigle che vedono giacere nei propri libri prestiti sovrani di ultima istanza.
Insomma, c’è ben poco da stare allegri. Tanto più che nel silenzio pressoché generale in America ben 20 banche non hanno superato gli stress-test imposti dalla Fed e anche le grandi istituzioni che invece lo hanno fatto non hanno messo a disposizione del pubblico alcuni particolari interessati riguardo reale leva di leverage, contenuto nei book, assets diversificati e - come nel caso di Goldman Sachs - il fatto di aver cambiato regime fiscale essendosi tramutata in banca ordinaria e non più d’affari quindi legittimata a non ascrivere a bilancio le perdite pregresse.
Insomma, occorre tenere gli occhi aperti e informarsi il più possibile attraverso fonti indipendenti. Le migliori sembrano essere gli ex economisti del Fmi, i quali sono diventati tali proprio perché tendevano a non mascherare o imbellettare le cifre e dire la verità. Uno di questi è Ken Rogoff, ex economista del Fondo, secondo il quale siamo alla vigilia di «uno spasmo di default» ciclico, quasi schumpeteriano, dovuto alla perdita totale di fiducia dei detentori di bond: fu così nel 1830, fu così nel 1930. Insomma, per molti analisti non a libro paga di istituzioni statali o finanziarie siamo alla vigilia di una bancarotta globale che cambiare del tutto gli equilibri, come quella di Filippo II di Spagna che spianò la strada al potere finanziario olandese e orangista.
Nessuno però sembra dare troppo credito a questa interpretazione e ancora si eccita con i piani di Obama, le promesse ridicole del G20 o l’euforia isterica della Borsa: attenzione, perché il mondo rischia di trasformarsi in un G2 formato da Usa e Cina e questo duopolio appare pacifico solo per convenienza reciproca nel breve termine. Poi sarà Guerra. Senza esclusione di colpi, da nessuna delle due parti. Ormai, la crisi è geopolitica.
Già, perché se il Fondo Monetario Internazionale ha detto molto, bisogna ammettere che non ha detto tutto. Ci ha detto, ad esempio, che le perdite totale dovute all’infezione di subprime e assets tossici vari toccheranno i 4mila miliardi di dollari (dopo stime iniziali che parlavano di 300, poi 600, poi timidamente 1000 e via in un crescendo quasi da rabdomante). Bene, ammesso che quella cifra non debba essere ulteriormente rivista al rialzo.
Non ci dice, però, che un fondo speculativo di prim’ordine come Hayman Advisers sta scommettendo proprio in questi giorni - e pesantemente, molto pesantemente - su un’ondata di bancarotte e ristrutturazioni di Stati come non si vedeva dal 1934, quasi tutte concentrate in Europa, il vero fulcro del leverage dissennato e dei conti fuori controllo. A rischio sono quegli Stati che non possono stampare moneta, che non hanno una moneta propria (l’Irlanda in testa, ma anche il disastrato Club Med di cui fa parte anche l’Italia) e l’Europa dell’Est, aree in cui si sono concentrate in massa i prestiti dei paesi dell’eurozona.
Per la divisione studi di Commerzbank, «ogni asta di bond in Europa si sta tramutando in un evento a rischio». D’altronde lo Stato dell’arte globale è sotto gli occhi di tutti, anche se il Fmi tende a nascondere certe cifre scomode. Gli assetti sono cambiati, Cina, Russia, i paesi produttori di petrolio e gli emerging markets asiatici non hanno più - come avevano negli anni della bolla - 1.3 miliardi di dollari di riserve da riciclare in buoni del tesoro Usa o bond europei.
Le banche centrali hanno perso 248 miliardi di reserve scendendo a quota 6.7 trilioni negli ultimi sei mesi. Il Venezuela, da solo, ha visto dimezzare le proprie reserve di un terzo a causa del crollo del prezzo del petrolio. La Cina, poi, ha deciso di investire il suo surplus mensile di 40 miliardi di dollari in infrastrutture interne pesanti - leggi miniere - invece che nell’enorme mercato del debito Usa.
Insomma, qualcuno vorrebbe danzare al ritmo della musica di sempre anche se questa è cambiata trasformandosi da un walzer e un de profundis. A New York si scommette sui default e si punta il dito sul cocktail formato da alto debito pubblico e dalle debolezze ancora da emergere di istituti come Royal Bank of Scotland, Hypo Real e Fortis, sigle che vedono giacere nei propri libri prestiti sovrani di ultima istanza.
Insomma, c’è ben poco da stare allegri. Tanto più che nel silenzio pressoché generale in America ben 20 banche non hanno superato gli stress-test imposti dalla Fed e anche le grandi istituzioni che invece lo hanno fatto non hanno messo a disposizione del pubblico alcuni particolari interessati riguardo reale leva di leverage, contenuto nei book, assets diversificati e - come nel caso di Goldman Sachs - il fatto di aver cambiato regime fiscale essendosi tramutata in banca ordinaria e non più d’affari quindi legittimata a non ascrivere a bilancio le perdite pregresse.
Insomma, occorre tenere gli occhi aperti e informarsi il più possibile attraverso fonti indipendenti. Le migliori sembrano essere gli ex economisti del Fmi, i quali sono diventati tali proprio perché tendevano a non mascherare o imbellettare le cifre e dire la verità. Uno di questi è Ken Rogoff, ex economista del Fondo, secondo il quale siamo alla vigilia di «uno spasmo di default» ciclico, quasi schumpeteriano, dovuto alla perdita totale di fiducia dei detentori di bond: fu così nel 1830, fu così nel 1930. Insomma, per molti analisti non a libro paga di istituzioni statali o finanziarie siamo alla vigilia di una bancarotta globale che cambiare del tutto gli equilibri, come quella di Filippo II di Spagna che spianò la strada al potere finanziario olandese e orangista.
Nessuno però sembra dare troppo credito a questa interpretazione e ancora si eccita con i piani di Obama, le promesse ridicole del G20 o l’euforia isterica della Borsa: attenzione, perché il mondo rischia di trasformarsi in un G2 formato da Usa e Cina e questo duopolio appare pacifico solo per convenienza reciproca nel breve termine. Poi sarà Guerra. Senza esclusione di colpi, da nessuna delle due parti. Ormai, la crisi è geopolitica.
di Mauro Bottarelli
Fonte articolo
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