Molti sicuramente ricorderanno Buskashì, il libro all’interno del quale Gino Strada raccontava i giorni dell’invasione americana dell’Afghanistan, ritrovandosi ad essere uno dei pochissimi testimoni occidentali ad avere assistito alla presa di Kabul.
Proprio negli ultimi capitoli di Buskashì, Gino Strada descriveva il nuovo volto della Kabul “liberata”, dove si moltiplicava la presenza delle ONG, (fuggite nelle settimane dei bombardamenti) dei grandi network televisivi, dei diplomatici e sedicenti tali, tutti con grandi disponibilità di denaro. “Centinaia di jeep nuove fiammanti fanno la spola fra i ministeri. L’aeroporto è ancora più trafficato del bazar, aerei ed elicotteri in continuazione volano così basso da far tremare i vetri”. Con queste parole Strada tentava di rendere il senso della situazione, aggiungendo che tutto lo staff dell’ospedale di Emergency era stato sfrattato dalla casa in affitto in cui viveva da tempo, poiché una ONG molto “ricca” aveva offerto 5000 dollari al mese contro i 300 pagati dal personale fino a quel momento.
Oggi, a molti anni di distanza da quei giorni, un articolo comparso sul quotidiano inglese The Indipendent offre un interessante spaccato sulla “realtà dorata” nella quale vive la nuova elite di Kabul, mentre in tutto l’Afghanistan stragi e massacri di civili continuano a susseguirsi senza sosta.
L’inchiesta del quotidiano inglese mette in evidenza come i consulenti stranieri a Kabul siano retribuiti sontuosamente con stipendi che vanno dai 250.000 ai 500.000 dollari l’anno, mentre la popolazione locale si dibatte nella miseria più nera. Al tempo stesso sottolinea il fatto che larga parte degli aiuti economici stanziati a livello mondiale in favore dell’Afghanistan in questi anni, anziché contribuire al sostegno del paese hanno finito per rimpinguare le casse delle società private occidentali e mantenere l’alto tenore di vita dei loro funzionari.
A questo riguardo è interessante notare come interi quartieri di Kabul siano stati ricostruiti in maniera sfarzosa per ospitare le sedi di ambasciate ed ONG occidentali, mentre il 77% dei cittadini afgani ancora oggi non ha accesso all’acqua potabile. Altissimi sono anche gli esborsi economici destinati a salvaguardare l’incolumità dei funzionari occidentali, dal momento che ogni abitazione deputata ad ospitarli è stata convertita in una vera e propria fortezza ed i loro spostamenti avvengono sotto scorta, molte volte con l’ausilio di mezzi blindati ed elicotteri. Le imprese occidentali deputate alla ricostruzione delle infrastrutture (molte delle quali statunitensi) continuano ad ottenere enormi profitti, incassando cifre molto superiori a quelle necessarie per eseguire i lavori, che vengono poi sub appaltati ad imprese afgane mal retribuite. Tutto ciò ha finora fatto si che il grande sforzo economico messo in atto dall’occidente per la ricostruzione, non si sia tradotto in una riduzione della disoccupazione fra i giovani afgani (come sarebbe stato auspicabile) indispensabile per evitare loro un futuro di guerriglia e feroce repressione militare, ma abbia semplicemente contribuito ad incrementare gli utili delle grandi imprese di costruzione occidentali.
Oggi, a molti anni di distanza da quei giorni, un articolo comparso sul quotidiano inglese The Indipendent offre un interessante spaccato sulla “realtà dorata” nella quale vive la nuova elite di Kabul, mentre in tutto l’Afghanistan stragi e massacri di civili continuano a susseguirsi senza sosta.
L’inchiesta del quotidiano inglese mette in evidenza come i consulenti stranieri a Kabul siano retribuiti sontuosamente con stipendi che vanno dai 250.000 ai 500.000 dollari l’anno, mentre la popolazione locale si dibatte nella miseria più nera. Al tempo stesso sottolinea il fatto che larga parte degli aiuti economici stanziati a livello mondiale in favore dell’Afghanistan in questi anni, anziché contribuire al sostegno del paese hanno finito per rimpinguare le casse delle società private occidentali e mantenere l’alto tenore di vita dei loro funzionari.
A questo riguardo è interessante notare come interi quartieri di Kabul siano stati ricostruiti in maniera sfarzosa per ospitare le sedi di ambasciate ed ONG occidentali, mentre il 77% dei cittadini afgani ancora oggi non ha accesso all’acqua potabile. Altissimi sono anche gli esborsi economici destinati a salvaguardare l’incolumità dei funzionari occidentali, dal momento che ogni abitazione deputata ad ospitarli è stata convertita in una vera e propria fortezza ed i loro spostamenti avvengono sotto scorta, molte volte con l’ausilio di mezzi blindati ed elicotteri. Le imprese occidentali deputate alla ricostruzione delle infrastrutture (molte delle quali statunitensi) continuano ad ottenere enormi profitti, incassando cifre molto superiori a quelle necessarie per eseguire i lavori, che vengono poi sub appaltati ad imprese afgane mal retribuite. Tutto ciò ha finora fatto si che il grande sforzo economico messo in atto dall’occidente per la ricostruzione, non si sia tradotto in una riduzione della disoccupazione fra i giovani afgani (come sarebbe stato auspicabile) indispensabile per evitare loro un futuro di guerriglia e feroce repressione militare, ma abbia semplicemente contribuito ad incrementare gli utili delle grandi imprese di costruzione occidentali.
Sfarzose ambasciate e lussuose sedi di ONG ed imprese private occidentali, con il loro corredo di guardie del corpo, jeep blindate nuove fiammanti ed hotel extralusso, alimentano il contrasto stridente fra il business dell’Occidente in Afghanistan e la penosa situazione nella quale la popolazione afgana continua ad essere costretta a vivere. Dopo 7 anni dalla “liberazione” oltre 25 milioni di afgani sono costretti a sopravvivere con meno di un dollaro al giorno, l’aspettativa di vita è di 45 anni, il tasso di alfabetizzazione risulta del 34% e oltre il 55% della popolazione vive senza elettricità, nonostante durante questi 7 anni un considerevole fiume di denaro pubblico abbia continuato a scorrere dai paesi occidentali in direzione Kabul. Senza dubbio non mancano gli elementi sui quali è imperativo riflettere.
di Marco Cedolin
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