Nuovo governo Berlusconi. E - come da copione - nuovo scandalo giudiziario. Per il giudice milanese Nicoletta Gandus, infatti, non ci sono dubbi: l’avvocato inglese David Mills fu - nel senso letterale e a suon di danari - corrotto dal presidente del consiglio. A questo punto: per il Piddì la via di uscita a questa empasse politico-giudiziaria è una sola: il premier si deve far processare. Mentre l’Italia dei Valori, invoca a gran voce le dimissioni. Ma il Cavaliere non si rassegna. E attacca con violenza…
Stop. Rewind.
Riavvolgiamo il nastro. E rivediamo tutto daccapo. Episodi precedenti compresi. E con un orizzonte - un tantino - più ampio.
Clic. Fermoimmagine.
(via Repubblica)
E prima notizia. Era il 30 aprile, ma dell’anno di grazia 2003. E “La Repubblica” scriveva che:
Le cose stanno così (l’avvocato, ndA) Cesare Previti, per il tribunale di Milano, ha corrotto i giudici di Roma per truccare alcune sentenze. Una di queste sentenze ha annullato il cosiddetto Lodo Mondadori che ha consentito al presidente della Fininvest, oggi capo del governo, di mettere le mani sulla più importante casa editrice del Paese (cioè sempre la Mondadori, ndA). Anche Berlusconi è stato imputato in questo processo. La Cassazione lo ha tirato via dall’ affare ritenendolo semplicemente un corruttore “costretto” alla corruzione dall’ opaco andazzo che governava le cose di giustizia nella capitale.
Stop. Avanti. Stop di nuovo. Altro fermoimmagine:
(via Repubblica)
E seconda notizia. Corre, ormai, l’anno di grazia 2009. E scriveva - proprio ieri - il Corriere della Sera.it:
Sono state depositate a Milano le 400 pagine delle motivazioni che hanno portato alla condanna dell’avvocato inglese David Mills a 4 anni e 6 mesi per corruzione in atti giudiziari. Agì «da falso testimone» - si legge nelle motivazioni di condanna -«per consentire a Silvio Berlusconi e al gruppo Fininvest l’impunità dalle accuse, o almeno, il mantenimento degli ingenti profitti realizzati. Dall’altro lato (Mills) ha contemporaneamente perseguito il proprio vantaggio economico». (…) Al centro del procedimento c’è l’accusa secondo cui Berlusconi nel 1997 avrebbe fatto inviare 600.000 dollari a Mills (…)
Tutto chiaro? Bene. Ma non basta. Allora riavvolgiamo di nuovo. E guardiamo tutto da un’altra angolazione.
Clic. Terza fotogramma:
(via Financial Times)
E terza notizia. Che però - su “Corriere”, “Repubblica” e stampa titolata italiota varia - non ha avuto grande risalto (anzi: chi scrive direbbe che non ha avuto affatto, ma non si sa mai che qualcosa gli sia sfuggito). Ebbene: sempre nell’anno di grazia 2003 - quello della prima condanna a Previti (poi confermata in Cassazione) e del secondo governo Berlusconi - le prime tre banche al mondo erano americane (Citigroup e Bank of America) e inglesi (Hsbc).
Clic. Quarto (e ultimo) fotogramma:
(via Financial Times)
Quarta (e ultima) notizia. Senza che questo abbia sconvolto più di tanto le Cnn e i New York Times de’ noantri: ora, nell’anno di grazia 2009 - mentre un altro avvocato vicino a Berlusconi si è buscato qualche anno (4 e mezzo per la precisione); e il Cavaliere è per la quarta volta premier - i tre principali istituti di credito del mondo sono tutti cinesi.
Insomma: si potrebbe scrivere che da inizio millennio ad oggi - nel Belpaese - son cambiati giusto alcuni nomi e alcune facce. Ma non il nostro beneamato (parole sue, con un 70 e passa per cento di consensi), Silvio Berlusconi. Che - ora (2009) come allora (2003) - sta sempre sullo scranno più alto del governo. Così come è rimasta intatta la sostanza di un problema che, per altro, viene da molto lontano. La corruzione. Ma osservare solo i protagonisti di queste due immagini - quella vecchia e ingiallita e quella nuova e fiammante - non basta. Bisogna guardare anche lo sfondo. Un teatrino in cui - dalla bellezza di quindici anni; elezione dopo elezione - si agitano e si rincorrono le stesse figure. Un Cavaliere (del lavoro) inguaiato; un pm sgrammaticato; e un leader del centrosinistra di turno.
Si potrebbero dire tutte queste cose. Ma sarebbe inutile. Perchè questi fatti - e relative polemiche - sono il pane quotidiano che ci servono giornali; tiggì e come tante scimmiette addestrate - anche molti abitanti della “Repubblichetta del blogghete italiana”. Mentre basta un minimo di memoria - e di buon senso - per mettere tutto in fila.
E comunque il punto è un altro. L’Italia si sta trasformando nel Belpaese dei replay e degli eterni ritorni, certo. Ma il mondo - invece - sta cambiando. E a gran velocità. E questo le Cnn e i New York Times de’ noantri stentano a metterlo a fuoco. Il New York Times, quello vero, invece, pare averlo ben presente. Tanto che martedì scorso ha ospitato un editoriale di Nouriel Roubini. Vale a dire uno dei pochi economisti che - nel 2006 - aveva previsto quella crisi delle banche Usa che ha sconvolto il mondo e rivoluzionato la mappa (quella del Ft di cui sopra) delle principali potenze del credito mondiali. Un editoriale in cui Roubini ha scritto nero su bianco che:
THE 19th century was dominated by the British Empire, the 20th century by the United States. We may now be entering the Asian century, dominated by a rising China and its currency. While the dollar’s status as the major reserve currency will not vanish overnight, we can no longer take it for granted. Sooner than we think, the dollar may be challenged by other currencies, most likely the Chinese renminbi. This would have serious costs for America, as our ability to finance our budget and trade deficits cheaply would disappear.
Ovvero e in italiano.
Il XIX secolo è stato dominato dall’Impero Inglese, il ventesimo dagli Stati Uniti. Forse ora stiamo entrando nel secolo Asiatico, dominato da una Cina che cresce e dalla sua moneta. Certo il dollaro non perderà il suo status di moneta di riferimento di un colpo, ma questo ruolo del dollaro non è più così scontato. Più presto di quel che ci aspetteremmo, il dollaro potrebbe essere “sfidato” da altre monete e, in primo luogo, molto probabilmente dal renminbi (cioè dalla moneta, NdA) cinese.
Ma perchè Roubini vede dietro l’angolo un secolo cinese? Perchè, spiega l’economista sempre sulle colonne del New York Times:
Traditionally, empires that hold the global reserve currency are also net foreign creditors and net lenders. The British Empire declined — and the pound lost its status as the main global reserve currency — when Britain became a net debtor and a net borrower in World War II. Today, the United States is in a similar position. It is running huge budget and trade deficits, and is relying on the kindness of restless foreign creditors who are starting to feel uneasy about accumulating even more dollar assets. The resulting downfall of the dollar may be only a matter of time.
But what could replace it? The British pound, the Japanese yen and the Swiss franc remain minor reserve currencies, as those countries are not major powers. (…) The euro is hobbled by concerns about the long-term viability of the European Monetary Union. That leaves the renminbi.
Ovvero e sempre nella lingua de’ noantri:
Tradizionalmente gli imperi che hanno in mano la moneta globale di riferimento (quella, in altre parole, che serve per gli scambi internazionali; che oggi poi è quel dollaro con cui si compra petrolio e quant’altro, NdA) sono anche creditori e prestatori (…) nei confronti degli altri Paesi. L’Impero inglese declinò - e la sterlina perse il suo stato di moneta globale di riferimento - quando la Gran Bretagna invece che prestare denaro cominciò a chiederlo in prestito e divenne debitore netto nei confronti dell’Estero, durante la Seconda guerra mondiale. Oggi gli Stati Uniti si ritrovano in una posizione simile. Gli Usa hanno grossi deficit di bilancio e la bilancia commerciale è negativa, e quindi devono contare sulla “gentilezza” dei loro creditori stranieri che però sono irrequieti e stanno cominciando a sentirsi a disagio nell’accumulare sempre più asset in dollari. La conseguente caduta del dollaro potrebbe essere solo una questione di tempo.
MA chi potrebbe rimpiazzare il dollaro? La sterlina, lo yen e il franco svizzero rimangono monete minori e i Paesi a cui appartengono non sono grandi potenze. (…) L’euro continua ad essere azzoppato dalle preoccupazioni sulla stabilità nel lungo termine dell’Unione monetaria europea. E questo fa sì che non rimanga che il renminbi.
Fantascienza? Pare fantascienza che un giornale come il New York Times s’interroghi sulla (possibile) fine del secolo americano. Ma non la è. E’ proprio così.
E non sono fantascienza nemmeno i problemi che stanno alla base di questo (possibile) lento declino degli Usa. Tutto si potrebbe riassumere in una parola: debito. Ma spiegare come questo debito si sia gonfiato come un pallone aerostatico è un po’ più complesso. Per farla breve, semplice e stare sul punto - cioè sullo scontro dollaro-renminbi - però bisogna ricordare almeno 3 cose. Primo: non da oggi, ma da tempo: è la Cina ad essere esportatore negli Stati Uniti. Secondo: la Cina è anche il Paese che ha in mano la maggior parte del debito (pubblico) a stelle e strisce. E terzo: praticamente, si potrebbe dire - probabilmente senza andare lontano dal vero - che i cinesi hanno prestato agli americani il denaro necessario a comprare le loro merci. Un circuito che però - e qui sta il nodo e la causa scatenante della (possibile) fine del secolo americano - ora rischia di saltare. Perchè gli Stati Uniti - per garantirsi il loro standard di vita e il loro ruolo di superpotenza - con i debiti hanno un tantino esagerato.
Un problemuccio che si potrebbe tradurre in numeri inequivocabili. Ma, anche in questa caso, sarebbe fatica sprecata. E infatti: settimana scorsa - e senza che la cosa al solito facesse grande rumore sulla stampa titolata italiota - il neo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama ha detto a chiare lettere che “Il deficit a lungo termine e il debito che abbiamo accumulato sono insostenibili. Non possiamo andare avanti a chiedere soldi in prestiti alla Cina o ad altri Paesi”, perchè “dovremo pagare interessi su quel debito e questo significa che stiamo ipotecando il futuro dei nostri figli con sempre più debito”. Più chiaro di così, si muore. O se preferite, si rischia di fallire.
Varrebbe quindi la pena chiedersi - come fa il Financial Times oggi; in un altro lungo editoriale firmato da Martin Wolf - se non siamo alla fine di un’era. E interrogarsi su come affrontare un mondo in cui il baricentro potrebbe non essere più New York, ma Pechino. Non l’Atlantico, ma il Pacifico. Se non altro per cercare di capire che fine farebbe uno stato sgangherato come quello italiano in un nuovo mondo con nuovi punti di riferimento. Ma niente. New York Times, Financial Times e Bbc de’ noantri preferiscono guardare un altro film. La solita commedia all’italiana con il solito capocomico e la solita truppa di comparse e comprimari vari. Che forse quindici anni fa, meritava anche. Oggi francamente molto meno. Ma c’è da capirli come c’è da capire i loro affezionati lettori e telespettatori. Forse le solite gag - con tanto di replay - non fanno neanche più tanto ridere (o piangere). Ma sono rassicuranti. Cercare di capire il ruolo di Berlusconi e Alfano nel secolo cinese, no. Quello fa solo sgomento.
E allora, avanti tutta. Prossimo fotogramma:
(via Corriere Tv)
e prossima notizia…
Fonte articolo
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