Scalda il cuore sapere che qualcuno non ha perso l’ottimismo. E il presidente della banca centrale americana, Ben Bernanke è più che ottimista: quest’anno è stato duro, ha detto, ma la crisi, anzi la recessione è cosa passata. A gelare il sangue però sono i numeri. Quelli sulla disoccupazione. Prevista - non da un pool di catastrofisti; ma dagli economisti dell’Ocse, l’organizzazione che raccoglie i 30 Paesi più sviluppati al mondo - sempre ottima e abbondante, almeno fino al prossimo anno. Poi, si vedrà.
In cifre: secondo l’Ocse, dal 2007 ad oggi nei 30 Paesi di cui sopra - Italia compresa - sono evaporati 15 milioni di posti di lavoro, e entro la fine del prossimo anno, altri 10 milioni di persone rischiano di rimanere a casa. Alcuni con la magra consolazione di un qualche sussidio per campare. Altri - come, ça va sans dire, i precari italiani - senza il becco di un quattrino. Ma tutti con la consapevolezza, almeno, di aver vissuto un momento di disgrazia epocale. Se lo scenario disegnato dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico dovesse passare dalla carta alla strada, il tasso di disoccupazione dei Paesi ricchi del globo toccherebbe il 10% (fuor di percentuale: farebbe 57 milioni di disoccupati). Un dato mai raggiunto, come osserva l’Ocse, dal secondo dopoguerra ad oggi. E in pratica un altro record sbriciolato dalla peggior crisi dai tempi della Grande depressione.
Insomma: secondo l’Ocse, i numeretti del Pil potrebbe anche tornare a viaggiare all’insù. Ma l’uomo della strada faticherà ad accorgersene. Previsioni un tantino fosche. Ma che - già questa settimana - hanno trovato le prime conferme. L’emoragia di posti di lavoro cominciata ormai più di un anno fa non accenna a fermarsi. Opel ha annunciato più di 10mila licenziamenti. Il gigante russo dell’automobile Avtovaz, 5mila. E la casa farmaceutica americana Eli Lilly, altri 5mila. Questo è accaduto - tra Berlino, Mosca e gli Usa - lunedì. Martedì invece la doccia fredda è arrivata da Londra: in Gran Bretagna - secondo gli ultimi dati disponibili (giugno 2009) - la disoccupazione è arrivata al 7,9%. Meglio che in Usa e eurozona (dove la percentuale di disoccupati è già vicina alla doppia cifra). Ma pur sempre - per Londra e dintorni - il peggior dato dal 1995. Per finire il giro del mondo, anche a Tokyo si soffre. La Japan airlines, sempre questa settimana, ha annunciato il licenziamento di 6.800 dipendenti (il 14% della forza lavoro). E il taglio di una ventina di rotte. Compresa - verrebbe da dire ovviamente - la nostrana Malpensa.
A proposito di guai nostrani. E l’Italia? E l’Italia - nel silenzio quasi assordante di media che appartengono (in senso stretto) o al presidente del consiglio, o a grandi gruppi finanziari e industriali (”La Stampa”, “Repubblica”, “Sole 24 ore” e “Corriere”); media che questa crisi l’hanno raccontata giusto nelle pause tra una querelle politica e l’altra - dicevamo: l’Italia sta scivolando zitta zitta e inesorabile sulla stessa china. L’Ocse stima che - di qui al 2010 - 1,1 milioni di italiani potrebbero perdere il lavoro. E qualcuno comincia più o meno timidamente a protestare. Gli insegnanti vittima dei tagli per far quadrare i conti dello Stato, innanzitutto. Ma non solo. Dopo il “caso Innse”, altri operai sono saliti in cima a una fabbrica. Sono cinque dipendenti della Lares e della Metalli preziosi che da giorni sono in cima alla fornace della loro fabbrica a Paderno Dugnano, in Lombardia. Non scenderanno - o così dicono - finchè non avranno la certezza che loro e i loro colleghi (250 persone) non avranno un lavoro. Lo racconta oggi anche il Corriere della Sera. Chiaramente nelle pagine della cronaca di Milano. Sia mai che qualcun altro si azzardi ad imitarli, minando pace sociale, e fiducia dell’italiota convinto che tanto noi, da questa crisi, “ne usciremo meglio degli altri”.
E allora? E allora Ben Bernanke - come ricordava ieri uno dei pochi blogger italiani ad occuparsi a tempo pieno di banche e dintorni - la crisi non l’aveva vista arrivare manco col binocolo. Ma forse avrà ragione lui a dire che il “peggio è passato” e a (pre)vederne la fine. Il prezzo per uscire dal tunnel, però, sembra ancora tutto da pagare. Sempre che - visto il boom dei debiti pubblici e un’economia (quella occidentale) basata insulsamente sui consumi (che negli Usa fanno il 70% del Pil) - il prezzo ci si riesca, a pagarlo.
P.S. Per gli smemorati e i refrattari alla cultura: qui, la spiegazione del titolo.
Fonte articolo
Nessun commento:
Posta un commento
Visto lo spam con link verso truffe o perdite di tempo i commenti saranno moderati. Se commenti l'articolo sarà pubblicato al più presto, se invece vuoi lasciare link a siti porno o cose simili lascia perdere perdi solo tempo.