17/10/09

Grandi opere, guerra per lobby


È partito l’assalto da parte dei potentati economici per i 19 miliardi in “palio”.

Tra i costruttori è scoppiata la guerra delle lobby per le grandi opere. Ai soliti general contractor abituati per decenni a dominare il mercato e a spartirsi con sapienza gli appalti si contrappongono centinaia di imprese specializzate intenzionate a sparigliare il gioco. La contesa è aspra, anche se al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori si fa fatica perfino ad individuarla perché i protagonisti si affrontano lontano dai riflettori, sotto il pelo dell’acqua e nessun giornale ne parla. L’esito del braccio di ferro non è affatto scontato nonostante il cuore del governo e in particolare quello del ministro per le Infrastrutture, il cecinese Altero Matteoli, batta forte per le grandi imprese. In ballo ci sono investimenti pubblici e privati cospicui, almeno sulla carta, circa 19 miliardi di euro, tra nuove risorse (2,3 miliardi per la legge Obiettivo), 8,6 miliardi di vecchi investimenti riprogrammati del Fondo per le aree sottosviluppate (Fas), 2 miliardi per interventi minori e 6 miliardi dei concessionari delle autostrade. Un mare di quattrini, anche se inferiore rispetto a quanto veniva stanziato negli anni passati.

Nel 2007 e 2008, per esempio, alle grandi infrastrutture i governi di centrosinistra dedicarono un incremento di spesa rispettivamente del 12,4 e del 13,3 per cento. Il governo di Silvio Berlusconi, invece, con le manovre economiche del 2009 e del 2010 ha ridotto in termini reali la dotazione di circa il 20 per cento rispetto agli anni precedenti così come risulta dai dati dell’Associazione dei costruttori (Ance). L’impegno finanziario resta in ogni caso enorme, soprattutto in relazione alla scarsità di risorse pubbliche disponibili .

Da una parte della barricata ci sono i Grandi cavalieri del cemento armato, i soliti imprenditori blasonati, formidabili razziatori di appalti pubblici. Una lobby dalla quale è spuntata per gemmazione un’altra superlobby con al vertice 13 imprese dai nomi altisonanti accasate all’interno dell’Ance, ma di fatto così autorevoli e potenti da fare razza a sé, una specie di casta del mattone legata a filo doppio alla politica e rappresentata dall’Agi (Associazione delle grandi imprese) e dall’Igi, il centro studi per le grandi infrastrutture coordinato da Giuseppe Zamberletti, noto come il fondatore della Protezione civile e commissario del governo per i terremoti in Friuli e Irpinia.

C’è la Vianini di Franco Caltagirone, l’ottavo re di Roma, costruttore-banchiere-finanziere con una liquidità immensa e il pallino della carta stampata, proprietario di un bel bouquet di giornali influenti come il capitolino Il Messaggero e Il Mattino di Napoli. E poi la Salini che proprio alcuni giorni fa si è fusa con la Todini della signora Luisa, esponente umbra del Pdl in lizza per una candidatura alle regionali dell’anno prossimo nel Lazio in contrapposizione a Piero Marrazzo. E ancora: Pizzarotti, Astaldi, Baldassini-Tognozzi-Pontello, Fincosit, Condotte, Maltauro, Torno.

E l’Impregilo che per le grandi opere è come il prezzemolo. Oggi controllata dai Benetton e Marcellino Gavio, Impregilo negli anni passati aveva costruito tra l’altro l’ospedale dell’Aquila, venuto giù come un castello di carte con il terremoto, mentre con la società Fisia-Fibe in Campania non era stata capace in un decennio di realizzare neanche un inceneritore contribuendo a far lievitare lo scandalo della monnezza. Forse per questi indubbi meriti acquisiti sul campo è stata gratificata con la solenne investitura governativa per la costruzione del Ponte sullo Stretto.

E poi lo stesso Marcellino Gavio, con altre sue aziende concessionario di autostrade al Nord tra cui la Torino-Milano, uno dei campioni della controversa vicenda della Tav, la rete ferroviaria per i treni ad alta velocità progettata a partire dal lontano 1985, lanciata nel 1991 dall’allora presidente delle Ferrovie, Lorenzo Necci, e non ancora arrivata al capolinea, con costi impressionanti, da quattro a cinque volte superiori a quelli della Francia e della Spagna.

E ancora: l’abruzzese Carlo Toto, socio al 40 per cento della società Autostrade nella Roma-L’Aquila e proprietario indebitato fino agli occhi soprattutto con Banca Intesa della compagnia aerea Air One, protagonista un anno fa di una delle più strampalate operazioni politico-industriali della storia patria, la privatizzazione dell’Alitalia ormai fallita. Per volontà del governo, l’Air One fu associata alla ex compagnia di bandiera nella Cai a cui è stato graziosamente attribuito a spese dei viaggiatori e dei contribuenti il monopolio assoluto e praticamente non sindacabile per almeno tre anni sulla tratta più trafficata e redditizia di tutto il paese, quel Roma-Milano che è una specie di bancomat aeronautico, una rendita facile alimentata da slot (diritti di decollo e atterraggio) che nessuno, da Assoclearence ad Enac, è in grado di riconsegnare alla libera concorrenza. Aggregate a questo gotha ci sono poi le imprese cooperative tipo la Cmc (Cooperativa costruttori e cementisti) di Ravenna, la Unieco, impresa edile di Reggio Emilia, e infine la Coopsette.

Dall’altra parte del fronte sono schierate le aziende medie e medio-grandi che si definiscono specializzate e superspecializzate, società dai nomi in genere quasi del tutto sconosciuti, al di fuori almeno della cerchia degli addetti ai lavori, raggruppate in 36 categorie diverse. Ci sono, per esempio, i costruttori di prefabbricati, le aziende addette all’armamento ferroviario, quelle per le fondazioni speciali e il consolidamento dei terreni, quelle per le impermeabilizzazioni, i fornitori di sistemi antisismici. Attraverso le loro associazioni di categoria da un po’ di tempo queste centinaia e centinaia di imprese hanno deciso di dare battaglia partendo dalla constatazione quasi banale che i modelli seguiti in passato per la politica delle infrastrutture non hanno dato buoni risultati (ne parleremo nella prossima puntata).

Attenzione, però: sulle grandi opere e sul mattone tricolore non si sta riproponendo la solita disfida grandi contro piccoli che è una costante ormai storica dell’imprenditoria nazionale. L’aspetto delle dimensioni aziendali è uno degli elementi della partita, ma non l’unico e nemmeno quello fondamentale. La linea vera di frattura è un’altra e passa tra due modi diversi di intendere la realizzazione delle infrastrutture future. Le società specializzate mettono in discussione proprio l’impalcatura classica del sistema delle imprese generali e si battono in particolare contro la pratica del subappalto. Il loro motto è semplice: «Il lavoro sia fatto da chi lo sa fare», che tradotto in soldoni significa che vogliono uscire dalla palude indistinta delle aziende subappaltanti nella quale oggi sono confinate per entrare in una dimensione di pari dignità con le grandi aziende costituendo con esse associazioni temporanee di impresa finalizzate alla realizzazione di singoli progetti. L’esito del braccio di ferro in corso stabilirà non solo quali interessi in campo saranno premiati, circostanza che interessa relativamente poco ai comuni mortali. Ma farà intuire anche la piega che potrà essere impressa al ciclo delle grandi opere.

di Daniele Martini

Fonte articolo

Stop al consumo di territorio
La Casta dei giornali
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