16/10/09

Il Conto


Non si può mai essere sicuri di nulla. E l’economista ed ex direttore del “Sole 24 ore”, Mario Deaglio lo ha detto chiaro e tondo. Lui - a differenza di Barack Obama, Gordon Brown e Silvio Berlusconi vari - non è affatto sicuro che la crisi economica peggiore dal dopoguerra sia davvero finita. Anzi. Deaglio - in uno studio promosso dal Centro Einaudi e pubblicato oggi proprio dal suo ex giornale, cioè dal “Sole” - ha scritto nero su bianco che:

Non è possibile affermare che - arrivati all’estate del 2009 - più della metà dell’acqua della crisi fosse già passata sotto i ponti. Per quanto non siano mancati segnali di attenuazione dei sintomi negativi, i segnali di ripresa produttiva non appaiono ancora generalizzati. E, anche se relativamente improbabile, non può essere del tutto scartata la possibilità di una nuova accentuazione della caduta produttiva: uno sguardo ai comparti dell’economia reale all’inizio dell’estate 2009, con la bancarotta della General Motors e le pessime notizie dai settori dell’auto, del trasporto aereo e di molti beni di consumo, non consente di escludere” una ricaduta (…). Insomma: “Al momento di chiudere questo lavoro, l’incertezza è estrema; ma una cosa appare ragionevolmente sicura: meglio aspettare a gridare vittoria, e lo spumante per il brindisi, per il momento, lasciamolo in cantina“.

Deaglio - a modesto parere di chi scrive - ha ragione. I numeri sono contraddittori. E basta prendere, per esempio, i dati sui consumi degli Stati Uniti - saliti ad agosto e ridiscesi a settembre - per rendersene conto. In attesa che arrivino veramente tempi migliori e che si possa finalmente brindare a una rinnovata salute dell’economia mondiale - e sempre che questo accada davvero - non resta, quindi, che concentrarsi su alcuni dati di fatto. Le grandi banche di Wall Street - epicentro e motore della crisi che un anno e rotto fa ha investito il mondo - hanno già ripreso a macinare profitti. E a distribuire bonus multimilionari a manager e dipendenti. Per alcuni - i più fortunati; o se si preferisce, i soliti noti - è di nuovo tempo di business as usual. Mentre a contribuenti e comuni mortali è rimasto un colossale conto da pagare. Parte in (s)comode rate. E parte hic et nunc.

Le rate, per cominciare. Martin Wolf - editorialista del Financial Times - non più di 8 giorni fa osservava:

“L’operazione di salvataggio delle nostre economie è stata senza precedenti per dimensione e portata. All’inizio del 2009, la produzione industriale mondiale era crollata del 25% rispetto ad un anno prima. E il crollo dei commerci mondiali era anche peggiore. I governi” allora hanno messo in campo una serie di misure mai viste “in tempo di pace. Nei Paesi più ricchi, il supporto al settore finanziario (…) è stato pari al 29% del Prodotto interno lordo“.

In altre parole: secondo Wolf, i governi hanno messo sul piatto quasi un terzo del loro Pil solo per tenere a galla le banche. E quindi? E quindi, come ha spiegato il nostro ministro delle Finanze, Giulio Tremonti, all’ultimo meeting di Comunione e liberazione:

“(…) Si è creato un eccesso di debito pubblico (…) che è stato creato a seguito di un eccesso di debito privato: c’è stato un trasferimento di ricchezza dai privati allo Stato, e cioè sono state pubblicizzate le potenziali perdite”.

Una sintesi efficace, per carità. Ma che - sempre a modesto parere di chi scrive - ha due difetti non da poco. Primo: il nostro ministro delle Finanze - di fronte alla platea plaudente dei ciellini - non ha esitato a tirare la croce addosso ai “cattivi” banchieri, che concedendo prestiti troppo facilmente (i famosi “mutui subprime”) hanno inguaiato il mondo. Ma si è dimenticato di dire che è stata quest’orgia di credito facile a tenere in piedi le economie dell’Occidente (e non solo) per anni. E che finchè la festa è durata, nessuno - Tremonti compreso - si è mai lamentato più di tanto. Nè per i mutui o le carte di credito distribuiti a pioggia. Nè per la cosiddetta Finanza creativa. Finanza creativa - leggi: derivati - che proprio Tremonti, quand’era ministro delle Finanze del governo Berlusconi numero 2, aveva messo a disposizione anche di Comuni e Province (come ha ricordato recentemente anche Sergio Rizzo sulle pagine del “Corriere della Sera”). Con esiti - per la cronaca - ultimamente non proprio esaltanti. E poi. Difetto numero due: i proclami del nostro ministro delle Finanze, purtroppo, non solo non serviranno a risolvere il problema; ma nemmeno ne rendono le dimensioni. Che - numeri alla mano - appaiono gigantesche. Alla faccia di quella crisi che - non Tremonti, ma direttamente il capobottega dixit - non era poi così grave.

E infatti. I governi di mezzo mondo sono stati costretti a mettere sul piatto miliardi come noccioline non solo per salvare le banche, ma anche per varare piani di stimolo all’economia e distribuire sussidi di disoccupazione a pioggia. Mentre le entrate fiscali - sempre per effetto della crisi che ha tagliato posti di lavoro e profitti delle aziende - sono scese a capofitto. Risultato: l’impatto sui conti pubblici è stato devastante.

Il Fondo monetario internazionale - in un rapporto chiamato “World economic outlook 2009″,che è stato aggiornato per l’ultima volta ad ottobre di quest’anno - ha provato a fare il punto sui debiti pubblici. Mettendo in fila una serie di numeri da mani nei capelli. Secondo il Fmi, infatti:

  • Negli Stati Uniti, il rapporto debito-Pil era, nel 2007, pari 61,9%. Rapporto debito-Pil che salirà all’84,8% alla fine di quest’anno. Per poi arrivare al 93,6% nel 2010. E quindi al 108,2% nel 2014.

Una traiettoria esplosiva che non risparmierà neppure Europa e Giappone. Sempre secondo il Fondo monetario internazionale:

  • In Francia, il rapporto debito-Pil, nel 2007, era pari al 63,8%. Arriverà 76,7%, a fine 2009. All’82,6%, nel 2010. E al 92,6% nel 2014.
  • Germania: 63,4% nel 2007; 78,7% nel 2009; 84,5% nel 2010; 89,3% nel 2014
  • Gran Bretagna: 44,1% nel 2007; 68,7%, nel 2009; 81,7% nel 2010; 98,3% nel 2014
  • Giappone: 187,7% nel 2007; 218,6%, nel 2009; 227%, nel 2010; 245%, nel 2014

Unica eccezione - tra le grandi potenze del globo - il Canada. Che dovrebbe chiudere quest’anno con un rapporto debito-Pil al 78,2%. Che, poi, nel 2014 dovrebbe scendere al 68,9%.

E in Italia? Il virtuoso Tremonti, sempre al Meeting di Cl, aveva spiegato che altri governi si sarebbero impegnati soprattutto per salvare “i ricchi”, cioè le banche. Mentre lui - il Robin Hood de’ noantri - avrebbe scelto di puntare tutto sulle “povere” imprese e le “povere” famiglie. Meno male. Anche perchè - come ha ricordato giusto qualche giorno fa anche l’ex numero uno di Banca Italia, Antonio Fazio (uno che di banche e “Bancopoli”, se ne intende) - l’Italia era già troppo indebitata prima della crisi. Ragion per cui: “Se le banche italiane - ha detto Fazio - avessero avuto i problemi di altre banche straniere e fossero crollate per la crisi, lo Stato italiano non sarebbe stato in grado di far fonte alla situazione e adesso saremmo tutti a chiedere l’elemosina”.

Per fortuna non è andata così. Per sfortuna, però - e nonostante i buoni propositi del suo ministro delle Finanze - l’Italia non farà eccezione alla regola dei debiti pubblici esplosivi. Anzi. Secondo le stime del Fmi: il Belpaese a fine 2007 aveva un rapporto debito-Pil già ottimo e abbondante, e pari al 103,5%. Che dovrebbe salire al 115,8% a fine 2009. Per poi arrivare al 120,1% nel 2010. E approdare a un robustissimo - e robustissimo, si fa per dire - 128,5% nel 2014. Il dato peggiore - con l’eccezione del Giappone - di tutto il cosiddetto G7 (che poi, appunto, è composto da Usa, Gran Bretagna, Germania, Francia, Canada, Giappone e Italia).

Questo po’ po’ di debito - va da sè - ci accompagnerà per un bel pezzo. E “a rate” - ovvero pezzettino per pezzettino - andrà, prima o poi, ripagato. Ma i contribuenti non se ne sono ancora accorti, anche perchè, per ora, gli Stati sono impegnati solo a spendere a mani basse.
C’è un prezzo della crisi - però - che l’uomo della strada sta già scontando. Hic et nunc - cioè qui e ora. Ed è quello della disoccupazione. Che in Europa, ad agosto, ha raggiunto quota 9,1% (dal 7% di agosto 2008). E negli Stati Uniti è addirittura raddoppiata nel giro di due anni (dal 4,9% di dicembre 2007 al 9,8% del settembre di quest’anno). In termini di numero di poveri cristi: solo negli Usa - in 24 mesi - 7,6 milioni di persone sono rimaste senza lavoro. In Europa - in soli dodici mesi - 5 milioni.

Ma anche la disoccupazione - un po’ come i salvataggi delle banche - è come una medaglia, con le canoniche due facce. Tradotto: c’è (già) chi ci sta guadagnando. E chi sta solo perdendo.

Robert Reich - ex ministro del Lavoro a stelle e strisce; docente all’università di Berkeley e firma ogni tanto ospitata dalle pagine del nostrano “Corriere della Sera” - giusto ieri scriveva sul suo blog:

Come ha fatto l’indice Dow Jones a risalire sopra quota 10mila punti, mentre l’economia è ancora “alla toilette”? I profitti delle aziende sono alti, soprattutto perchè stanno tagliando i costi (…) il che significa che le aziende stanno tagliando posti di lavoro. Questa è una strategia autodistruttiva. Se i lavoratori non hanno lavoro o temono di perderlo, non compreranno e i profitti delle aziende finiranno per scomparire.

Una logica perversa. Epperò: tutto per il momento si regge, secondo Reich, perchè:

La spesa pubblica ha riempito il vuoto creato da consumatori e imprese (…). Il debito pubblico, in altre parole, ha impedito all’economia di fare completamente fiasco. E tuttavia non può andare avanti così all’infinito.

Già. Secondo il docente della californiana università di Berkley, non può andare avanti così all’infinito. Cosa di cui si sono accorti - qui in Europa - anche a Bruxelles. Tanto che, ieri, la Commissione europea ha bollato una sfilza di debiti pubblici - compreso quello italiano - come “insostenibili”.

E allora, che accadrà? Niente paura. Proprio la California del professore Reich e la Gran Bretagna in Europa hanno già mostrato la strada. Nello stato governato dall’ex palestrato Arnold Schwarzenegger hanno tagliato talmente tanto i fondi per la scuola, che nei licei ci sono classi da 40 alunni. Londra si venderà il tunnel sotto la Manica. E anche l’Italia nel suo piccolo di cose da vendere (a partire da Poste e Eni) e di welfare state da fare a fettine ne ha eccome. E come si diceva al principio: non si può mai essere sicuri di nulla. Ma siamo sicuri che sia giusto pagare così il costo di questa crisi?

Fonte articolo

Stop al consumo di territorio
La Casta dei giornali
Firma la petizione per dire NO al NUCLEARE.

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