Non si può mai essere sicuri di nulla. E l’economista ed ex direttore del “Sole 24 ore”, Mario Deaglio lo ha detto chiaro e tondo. Lui - a differenza di Barack Obama, Gordon Brown e Silvio Berlusconi vari - non è affatto sicuro che la crisi economica peggiore dal dopoguerra sia davvero finita. Anzi. Deaglio - in uno studio promosso dal Centro Einaudi e pubblicato oggi proprio dal suo ex giornale, cioè dal “Sole” - ha scritto nero su bianco che:
“Non è possibile affermare che - arrivati all’estate del 2009 - più della metà dell’acqua della crisi fosse già passata sotto i ponti. Per quanto non siano mancati segnali di attenuazione dei sintomi negativi, i segnali di ripresa produttiva non appaiono ancora generalizzati. E, anche se relativamente improbabile, non può essere del tutto scartata la possibilità di una nuova accentuazione della caduta produttiva: uno sguardo ai comparti dell’economia reale all’inizio dell’estate 2009, con la bancarotta della General Motors e le pessime notizie dai settori dell’auto, del trasporto aereo e di molti beni di consumo, non consente di escludere” una ricaduta (…). Insomma: “Al momento di chiudere questo lavoro, l’incertezza è estrema; ma una cosa appare ragionevolmente sicura: meglio aspettare a gridare vittoria, e lo spumante per il brindisi, per il momento, lasciamolo in cantina“.
Deaglio - a modesto parere di chi scrive - ha ragione. I numeri sono contraddittori. E basta prendere, per esempio, i dati sui consumi degli Stati Uniti - saliti ad agosto e ridiscesi a settembre - per rendersene conto. In attesa che arrivino veramente tempi migliori e che si possa finalmente brindare a una rinnovata salute dell’economia mondiale - e sempre che questo accada davvero - non resta, quindi, che concentrarsi su alcuni dati di fatto. Le grandi banche di Wall Street - epicentro e motore della crisi che un anno e rotto fa ha investito il mondo - hanno già ripreso a macinare profitti. E a distribuire bonus multimilionari a manager e dipendenti. Per alcuni - i più fortunati; o se si preferisce, i soliti noti - è di nuovo tempo di business as usual. Mentre a contribuenti e comuni mortali è rimasto un colossale conto da pagare. Parte in (s)comode rate. E parte hic et nunc.
Le rate, per cominciare. Martin Wolf - editorialista del Financial Times - non più di 8 giorni fa osservava:
“L’operazione di salvataggio delle nostre economie è stata senza precedenti per dimensione e portata. All’inizio del 2009, la produzione industriale mondiale era crollata del 25% rispetto ad un anno prima. E il crollo dei commerci mondiali era anche peggiore. I governi” allora hanno messo in campo una serie di misure mai viste “in tempo di pace. Nei Paesi più ricchi, il supporto al settore finanziario (…) è stato pari al 29% del Prodotto interno lordo“.
In altre parole: secondo Wolf, i governi hanno messo sul piatto quasi un terzo del loro Pil solo per tenere a galla le banche. E quindi? E quindi, come ha spiegato il nostro ministro delle Finanze, Giulio Tremonti, all’ultimo meeting di Comunione e liberazione:
“(…) Si è creato un eccesso di debito pubblico (…) che è stato creato a seguito di un eccesso di debito privato: c’è stato un trasferimento di ricchezza dai privati allo Stato, e cioè sono state pubblicizzate le potenziali perdite”.
Una sintesi efficace, per carità. Ma che - sempre a modesto parere di chi scrive - ha due difetti non da poco. Primo: il nostro ministro delle Finanze - di fronte alla platea plaudente dei ciellini - non ha esitato a tirare la croce addosso ai “cattivi” banchieri, che concedendo prestiti troppo facilmente (i famosi “mutui subprime”) hanno inguaiato il mondo. Ma si è dimenticato di dire che è stata quest’orgia di credito facile a tenere in piedi le economie dell’Occidente (e non solo) per anni. E che finchè la festa è durata, nessuno - Tremonti compreso - si è mai lamentato più di tanto. Nè per i mutui o le carte di credito distribuiti a pioggia. Nè per la cosiddetta Finanza creativa. Finanza creativa - leggi: derivati - che proprio Tremonti, quand’era ministro delle Finanze del governo Berlusconi numero 2, aveva messo a disposizione anche di Comuni e Province (come ha ricordato recentemente anche Sergio Rizzo sulle pagine del “Corriere della Sera”). Con esiti - per la cronaca - ultimamente non proprio esaltanti. E poi. Difetto numero due: i proclami del nostro ministro delle Finanze, purtroppo, non solo non serviranno a risolvere il problema; ma nemmeno ne rendono le dimensioni. Che - numeri alla mano - appaiono gigantesche. Alla faccia di quella crisi che - non Tremonti, ma direttamente il capobottega dixit - non era poi così grave.
E infatti. I governi di mezzo mondo sono stati costretti a mettere sul piatto miliardi come noccioline non solo per salvare le banche, ma anche per varare piani di stimolo all’economia e distribuire sussidi di disoccupazione a pioggia. Mentre le entrate fiscali - sempre per effetto della crisi che ha tagliato posti di lavoro e profitti delle aziende - sono scese a capofitto. Risultato: l’impatto sui conti pubblici è stato devastante.
Il Fondo monetario internazionale - in un rapporto chiamato “World economic outlook 2009″,che è stato aggiornato per l’ultima volta ad ottobre di quest’anno - ha provato a fare il punto sui debiti pubblici. Mettendo in fila una serie di numeri da mani nei capelli. Secondo il Fmi, infatti:
- Negli Stati Uniti, il rapporto debito-Pil era, nel 2007, pari 61,9%. Rapporto debito-Pil che salirà all’84,8% alla fine di quest’anno. Per poi arrivare al 93,6% nel 2010. E quindi al 108,2% nel 2014.
Una traiettoria esplosiva che non risparmierà neppure Europa e Giappone. Sempre secondo il Fondo monetario internazionale:
- In Francia, il rapporto debito-Pil, nel 2007, era pari al 63,8%. Arriverà 76,7%, a fine 2009. All’82,6%, nel 2010. E al 92,6% nel 2014.
- Germania: 63,4% nel 2007; 78,7% nel 2009; 84,5% nel 2010; 89,3% nel 2014
- Gran Bretagna: 44,1% nel 2007; 68,7%, nel 2009; 81,7% nel 2010; 98,3% nel 2014
- Giappone: 187,7% nel 2007; 218,6%, nel 2009; 227%, nel 2010; 245%, nel 2014
Unica eccezione - tra le grandi potenze del globo - il Canada. Che dovrebbe chiudere quest’anno con un rapporto debito-Pil al 78,2%. Che, poi, nel 2014 dovrebbe scendere al 68,9%.
E in Italia? Il virtuoso Tremonti, sempre al Meeting di Cl, aveva spiegato che altri governi si sarebbero impegnati soprattutto per salvare “i ricchi”, cioè le banche. Mentre lui - il Robin Hood de’ noantri - avrebbe scelto di puntare tutto sulle “povere” imprese e le “povere” famiglie. Meno male. Anche perchè - come ha ricordato giusto qualche giorno fa anche l’ex numero uno di Banca Italia, Antonio Fazio (uno che di banche e “Bancopoli”, se ne intende) - l’Italia era già troppo indebitata prima della crisi. Ragion per cui: “Se le banche italiane - ha detto Fazio - avessero avuto i problemi di altre banche straniere e fossero crollate per la crisi, lo Stato italiano non sarebbe stato in grado di far fonte alla situazione e adesso saremmo tutti a chiedere l’elemosina”.
Per fortuna non è andata così. Per sfortuna, però - e nonostante i buoni propositi del suo ministro delle Finanze - l’Italia non farà eccezione alla regola dei debiti pubblici esplosivi. Anzi. Secondo le stime del Fmi: il Belpaese a fine 2007 aveva un rapporto debito-Pil già ottimo e abbondante, e pari al 103,5%. Che dovrebbe salire al 115,8% a fine 2009. Per poi arrivare al 120,1% nel 2010. E approdare a un robustissimo - e robustissimo, si fa per dire - 128,5% nel 2014. Il dato peggiore - con l’eccezione del Giappone - di tutto il cosiddetto G7 (che poi, appunto, è composto da Usa, Gran Bretagna, Germania, Francia, Canada, Giappone e Italia).
Questo po’ po’ di debito - va da sè - ci accompagnerà per un bel pezzo. E “a rate” - ovvero pezzettino per pezzettino - andrà, prima o poi, ripagato. Ma i contribuenti non se ne sono ancora accorti, anche perchè, per ora, gli Stati sono impegnati solo a spendere a mani basse.
C’è un prezzo della crisi - però - che l’uomo della strada sta già scontando. Hic et nunc - cioè qui e ora. Ed è quello della disoccupazione. Che in Europa, ad agosto, ha raggiunto quota 9,1% (dal 7% di agosto 2008). E negli Stati Uniti è addirittura raddoppiata nel giro di due anni (dal 4,9% di dicembre 2007 al 9,8% del settembre di quest’anno). In termini di numero di poveri cristi: solo negli Usa - in 24 mesi - 7,6 milioni di persone sono rimaste senza lavoro. In Europa - in soli dodici mesi - 5 milioni.
Ma anche la disoccupazione - un po’ come i salvataggi delle banche - è come una medaglia, con le canoniche due facce. Tradotto: c’è (già) chi ci sta guadagnando. E chi sta solo perdendo.
Robert Reich - ex ministro del Lavoro a stelle e strisce; docente all’università di Berkeley e firma ogni tanto ospitata dalle pagine del nostrano “Corriere della Sera” - giusto ieri scriveva sul suo blog:
Come ha fatto l’indice Dow Jones a risalire sopra quota 10mila punti, mentre l’economia è ancora “alla toilette”? I profitti delle aziende sono alti, soprattutto perchè stanno tagliando i costi (…) il che significa che le aziende stanno tagliando posti di lavoro. Questa è una strategia autodistruttiva. Se i lavoratori non hanno lavoro o temono di perderlo, non compreranno e i profitti delle aziende finiranno per scomparire.
Una logica perversa. Epperò: tutto per il momento si regge, secondo Reich, perchè:
La spesa pubblica ha riempito il vuoto creato da consumatori e imprese (…). Il debito pubblico, in altre parole, ha impedito all’economia di fare completamente fiasco. E tuttavia non può andare avanti così all’infinito.
Già. Secondo il docente della californiana università di Berkley, non può andare avanti così all’infinito. Cosa di cui si sono accorti - qui in Europa - anche a Bruxelles. Tanto che, ieri, la Commissione europea ha bollato una sfilza di debiti pubblici - compreso quello italiano - come “insostenibili”.
E allora, che accadrà? Niente paura. Proprio la California del professore Reich e la Gran Bretagna in Europa hanno già mostrato la strada. Nello stato governato dall’ex palestrato Arnold Schwarzenegger hanno tagliato talmente tanto i fondi per la scuola, che nei licei ci sono classi da 40 alunni. Londra si venderà il tunnel sotto la Manica. E anche l’Italia nel suo piccolo di cose da vendere (a partire da Poste e Eni) e di welfare state da fare a fettine ne ha eccome. E come si diceva al principio: non si può mai essere sicuri di nulla. Ma siamo sicuri che sia giusto pagare così il costo di questa crisi?
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