12/01/11

Lisbona e la sindrome irlandese


Il debito pubblico greco esplode e Atene è costretta a chiedere quattrini e aiuto a Bruxelles? E’ la primavera del 2010. E l’imperturbabile presidente della Banca centrale europea, Jean Claude Trichet subito rassicura tutto e tutti con un paio di considerazioni particolarmente argute. E soprattutto profetiche. La prima: “Non c’è motivo per avere dubbi” sulla salute degli “altri paesi dell’euro”, dice Trichet. La seconda: “E’ l’Irlanda il modello che la Grecia dovrebbe seguire” per gestire la crisi, perché “l’Irlanda aveva problemi molto seri e li ha affrontati con estrema determinazione e professionalità”, spiega a sopracciglia inarcate sempre il numero uno della Banca centrale del Vecchio continente.

Embè. E infatti.

Neanche sette mesi dopo, ovvero a novembre dell’anno scorso, le finanze pubbliche di un altro paese della Ue sono collassate. Quale paese? L’Irlanda. Commenta, a quel punto, il solito ineffabile Trichet: “Il problema c’è, ma non è grave”, E di nuovo e infatti: ora, a distanza di poche settimane, anche il Portogallo sembra sempre più in bilico. Anzi, sull’orlo del baratro. Il presidente della Banca centrale europea, giusto pochi mesi fa, ha assicurato pure che “Il Portogallo non è come la Grecia”. Visti i precedenti, fossimo a Lisbona, toccheremmo ferro (e forse pure qualcos’altro).

E in effetti, il Portogallo, di fortuna, ne ha davvero bisogno.

La spina nel fianco dei portoghesi - che, per la cronaca e tanto per dare le dimensioni del problema, ha solo 11 milioni di abitanti (circa un milione in più della Lombardia) - non è la dimensione del suo debito pubblico. Il debito di Lisbona, infatti, si aggira - secondo i dati dell’Ocse - attorno all’80% del Prodotto interno lordo (Pil che è, secondo il World Factbook , pari a circa 185,7 miliardi di euro, poco più di un decimo di quello italiano). In pratica Lisbona - al confronto, per esempio, dell’Italia (che ha un rapporto debito/Pil al 119%) - sarebbe quasi quasi virtuosa.

No, il problema è un altro.

Con lo scoppio della crisi finanziaria che perseguita l’Occidente da ormai tre anni, l’economia portoghese è entrata in panne. Le imprese hanno sofferto (il Pil, nel 2009, è sceso di quasi il tre per cento) e la disoccupazione è schizzata verso l’alto (secondo l’istituto di statistiche europeo: i senza lavoro sono passati dal 7,8% del 2008 all’11% del 2010). Conseguenza: meno tasse (pagate da aziende e lavoratori) e quindi meno entrate per lo Stato. E quindi più deficit. Troppo deficit.

Il deficit pubblico - che è la differenza, ogni anno, tra entrate (tasse) e uscite (spesa) - è schizzato nel 2009 al 9,4 % del Pil (tre volte quanto previsto dai parametri di Maastricht; quasi il doppio di quello registrato dall’Italia, sempre nel 2009). In pratica e per farla semplice: il Portogallo non sa più come coprire tutte le sue spese (pubbliche) e il debito è entrato in traiettoria “esplosiva” (passando, secondo i dati dell’istituto di statistica europeo, dal 69,2% del Pil nel 2007 all’81,1% nel 2009).

O meglio: il Portogallo una soluzione, effettivamente, l’avrebbe trovata. Invece di coprire le spese, il governo del primo ministro Jose Socrates Carvalho le spese, ha deciso di tagliarle. Brutalmente.

Nel 2011 - come riportato, tra gli altri, dal Financial Times - l’equivalente dell’Iva (la tassa) portoghese salirà dal 21% al 23%. Gli stipendi pubblici dovrebbero essere ridotti dal 3,5% al 10% (ma solo per chi guadagna più di 1.500 euro al mese). Le pensioni rimarranno congelate (non ci sarà nessun aumento, quindi, per contrastare il caro-vita). E i sussidi sociali (per i poveri) verranno abbattuti del 25% (insomma: di un quarto).

Lacrime e sangue. Ma almeno problema risolto? Non proprio.

Sempre secondo il Financial Times, infatti, i mercati - ovvero per gli investitori internazionali - considerano ’sto piano stile “tagliare tutto il tagliabile” non proprio convincente. E non gli piace perché agli investitori è venuto un dubbio. Per dirla piatta piatta (come il salumiere sotto casa, diciamo), i mercati si sono chiesti: ma se l’economia portoghese va male e il governo taglia la spesa pubblica, non è che niente niente le cose andranno pure peggio? Perché se si riduce la spesa pubblica, ci sono meno soldi in circolazione. Ma se ci sono meno soldi in giro, i consumatori comprano meno, le aziende licenziano di più e i licenziati, a loro volta, stringeranno ancora di più la cinghia. E così via, in un perverso circolo vizioso.

Risultato: tutti ’sti dubbi hanno portato il Portogallo a un passo dalla catastrofe. I mercati, infatti, il debito portoghese lo comprano malvolentieri. E Lisbona - per attirare investitori sempre più riottosi - è costretta a pagare interessi sui suoi titoli di stato sempre più alti.

Questa mattina: il Portogallo è riuscito a vendere 1,25 miliardi di buoni del Tesoro, con scadenza 2014 e 2020. L’interesse a 10 anni per gli investitori è al 6,7%. Peccato che - giusto ieri - governo e banca centrale del Portogallo abbiano fatto sapere che un interesse oltre il 7%, per loro, è insostenibile. Vale a dire che viste le condizioni delle casse pubbliche, non sarebbero in grado di pagarlo. E vale anche a dire che Lisbona è a un passo dal default tecnico e che potrebbe presto chiedere - come Grecia e Irlanda prima di lei - aiuto e danari all’Unione europea.

E infatti, oggi, il Wall Street Journal titola: “L’asta di titoli fa guadagnare tempo al Portogallo, ma il salvataggio è visto come inevitabile“.

Ma investitori e mercati cattivoni hanno forse torto a fidarsi poco? In realtà, probabilmente, no. Per la semplice ragione che anche l’Irlanda - ben prima del Portogallo - si era incamminata sulla strada dei tagli. E le cose non sono finite bene.

Il punto è che quando Dublino si era incamminata per prima sulla sentiero del taglio selvaggio, Trichet si era spellato le mani di applausi e l’aveva portata ad esempio per tutti. E da allora - anche se le sue previsioni non si sono rivelate esattamente azzeccate - il presidente della Banca centrale europea non ha cambiato idea. Anzi. Quella di ridurre i bilanci dello Stato ai minimi termini - e far pagare la crisi ai cittadini - è diventata la ricetta dell’Unione per tutti i Paesi in difficoltà.

E allora? E allora lo ripetiamo - sommessamente, perché siamo giusto i bamboccioni alla riscossa - ancora una volta: siamo davvero sicuri che questa politica dei tagli - applicata anche ad Atene e vera e propria via europea alla soluzione della crisi economica che ammorba l’Occidente - sia la strada giusta? E non sarebbe il caso di sollevare la questione anche nel nostro ex Belpaese? Non per altro. E’ che ne va della stabilità economica dell’intero Vecchio continente. E, per quel che vale, pure della nostra sgangherata Italia. Perché - dopo Spagna e Portogallo - è proprio l’Italia ad essere la candidata ideale per il prossimo giro di tagli, prestiti e affini. E sarà bene non dimenticarlo.

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