Der Spiegel, che ha pubblicato questi scatti, sostiene di essere in possesso di 4.000 tra foto e video che documentano uccisioni di civili «senza alcun motivo» da parte di soldati statunitensi in Afghanistan. Una «squadra della morte» composta da 12 militari che avrebbe ucciso e poi messo in scena scontri mai avvenuti per non rischiare guai. Tra le accuse la «dissacrazione» di cadaveri e il «possesso illegale di foto di corpi». Per posarvi accanto, sorridere, immortalare quel sorriso e gioirne a piacimento, in futuro.
Vengono in mente le immagini di Abu Ghraib. Viene in mente il video «Collateral murder» pubblicato da WikiLeaks lo scorso aprile. Così la sorpresa e il disgusto lasciano spazio alla consapevolezza che si tratti di un pattern, di una struttura comportamentale vera e propria. Il risultato dell’abitudine alla morte. Un modo paradossale per rimanere aggrappati alla vita. O forse, puro divertimento. Chissà.
Qualunque sia la causa, questo è uno degli effetti sistemici della guerra, e dovremmo prenderlo in considerazione quando si valutano operazioni come quella in corso in Libia. Senza lasciare che il lato pubblico del conflitto annienti quello privato di chi lo combatte. E senza sottovalutare la radicale incapacità di comprensione in cui ci getta.
Non riuscire a decifrare il sorriso in quella prima immagine pubblicata da Der Spiegel dovrebbe essere un fatto geopolitico, non solo psicologico. Da quantificare insieme ai morti e ai dispersi. Da insegnare nelle scuole. Agli alunni: «Fare la guerra ti fa oltraggiare, deridere la morte». E ai docenti: «La guerra ti rende inconcepibile la vita».
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