La reazione quasi istintiva che alcuni lettori hanno avuto, di respingere l’idea di dialogare e affidarsi piuttosto alle tanto collaudate relazioni già consolidate, l’hanno avuta anche molti Governi occidentali: il Presidente Ceco alle prime mosse della rivolta in Libia ha parlato di “disastro” in caso di caduta di Gheddafi, prima di lui il premier italiano Berlusconi ha definito “uomo di incredibile saggezza” prima Mubarak e poi il Raìs di Tripoli, e precedentemente la Francia aveva offerto le proprie truppe a sostegno di Ben Alì agli albori dei tumulti a Tunisi.
Mettersi dalla parte sbagliata della Storia è un talento.
Ci sono volute le Nazioni Unite per imporre delle sanzioni alla Libia: l’Unione Europea era rimasta a guardare, persino la Lega Araba aveva provveduto ad espellere lo Stato governato da Gheddafi.
Gli stretti legami economici hanno rallentato la reazione dell’Europa, evidentemente più preoccupata della stabilità del Medio Oriente che non del vigore della nascente democrazia.
Sostenere autocrazie repressive e illiberali è stato una scelta dettata dalla sfiducia che in quei Paesi si potessero evolvere situazioni migliori, dalla necessità di contenere le spinte fondamentaliste, dalla collaborazione sulla gestione dei flussi migratori, oltre che -ovviamente- aver un miglior controllo delle riserve di petrolio e gas.
Ora occorre saper virare, la Germania propone di concedere aiuti e agevolazioni normative a quei Paesi che effettueranno riforme democratiche, ad esempio, e mi pare un ottimo punto di partenza.
Continuare a sostenere dittatori illiberali che non fanno sviluppare il Paese che opprimono spinge più persone ad emigrare, oppure ad odiare “l’Occidente” che tende la mano agli oppressori. Ora che la stabilità non c’è più, non c’è nemmeno più il dilemma: i nostri interessi economici di lungo termine possono camminare insieme ai valori democratici. E’ nostro dovere sostenere e proteggere i ribelli nordafricani che lottano per la democrazia.
“Questo è un momento di vergogna e di dolore. E non è un giorno per la politica. Ho conservato questa occasione per parlare brevemente con voi circa la minaccia insensata della violenza che ancora una volta macchia la nostra terra e le nostre vite.
Le vittime delle violenze sono bianchi e neri, ricchi e poveri, giovani e vecchi, famosi e sconosciuti. Essi sono, più importante di tutti, gli esseri umani che altri esseri umani amato. Nessuno – non importa dove vive o ciò che fa – può essere certo che soffrono di qualche insensato atto di sangue.
Perché? Che cosa ha mai costruito la violenza? Che cosa ha mai creato? Nessuna causa di nessun martire è mai stata zittita dalla pallottola di un assassino. Un cecchino è solo un vigliacco, non un eroe.
Ogni volta che la vita di un uomo viene presa da un altro uomo inutilmente – se è fatto in nome della legge o nel dispregio delle leggi, da un uomo o una banda, a sangue freddo o in passione, in un attacco di violenza o in risposta alla violenza – ogni volta che viene strappato il tessuto della vita che un altro uomo ha faticosamente intrecciato per sé e per i suoi figli, l’intera umanità è degradata.
Eppure sembriamo tollerare un crescente livello di violenza che ignora la nostra comune umanità e il nostro desiderio di civiltà. Accettiamo tranquillamente resoconti giornalistici di macellazioni civili in terre lontane. Glorifichiamo la violenza sugli schermi cinematografici e televisivi e lo chiamano divertimento.
Troppo spesso rendiamo onore all’uso spavaldo della forza; troppo spesso si scusano coloro che sono disposti a costruire la propria vita sui sogni infranti degli altri. Alcuni cercano capri espiatori, altri cercano complotti, ma questo è molto chiaro: la violenza genera violenza, la repressione porta ritorsione, e solo una pulizia di tutta la nostra società può rimuovere questa malattia dalla nostra anima.
C’ è un altro tipo di violenza, più lenta ma altrettanto letale e distruttivi di un proiettile o di una bomba. Questa è la violenza delle istituzioni, l’indifferenza e l’inerzia e la lenta decadenza. Questa è la violenza che affligge i poveri, che avvelena le relazioni tra gli uomini perché la loro pelle ha colori diversi. La lenta morte di un bambino per fame, le scuole senza libri e case senza riscaldamento in inverno, negandogli la possibilità di presentarsi come padre e come uomo tra gli altri uomini.
Sappiamo che cosa deve essere fatto. Quando si insegna un uomo a odiare e temere suo fratello, quando si insegna che è un uomo di minor valore a causa del suo colore o le sue convinzioni o le politiche che persegue, quando si insegna che coloro che differiscono da te minacciano la tua libertà o il tuo lavoro o la tua famiglia, finisci per imparare a confrontarti con gli altri non come concittadini ma come nemici, che devono essere affrontati non con la cooperazione ma con la conquista.
Noi impariamo, alla fine, a guardare i nostri fratelli come alieni, uomini con i quali condividiamo una città, ma non una comunità, uomini legati a noi nella comune abitazione, ma non in uno sforzo comune. Impariamo a condividere soltanto una paura comune, solo la comune volontà di ritirarsi dagli altri.
La questione non è quali programmi si dovrebbe cercare di mettere in atto. La questione è se possiamo trovare in mezzo a noi e nel nostro stesso cuore quella leadership di finalità umane che permettono di riconoscere le verità terribile della nostra esistenza.
Dobbiamo ammettere la vanità delle nostre false distinzioni fra uomini e imparare a trovare il nostro proprio progresso nella ricerca per il progresso degli altri. Dobbiamo ammettere a noi stessi che il futuro dei nostri figli non può essere costruito sulla sventura degli altri. Dobbiamo riconoscere che questa breve vita non può essere nobilitata né arricchita da odio o vendetta.
Le nostre vite su questo pianeta sono troppo brevi e il lavoro da fare troppo grande per lasciare questo spirito fiorire più a lungo nella nostra terra. Naturalmente non possiamo vincere con un programma, né con una risoluzione. Ma possiamo forse ricordare, anche se solo per un attimo, che quelli che vivono con noi sono nostri fratelli, che condividono con noi lo stesso breve tempo di vita, che cercano, come noi, nient’altro che la possibilità di vivere la loro vita in felicità, ottenendo quello che riescono con soddisfazione e appagamento.
Sicuramente, questo legame di fede comune, tale vincolo di obiettivo comune, può cominciare a insegnarci qualcosa. Sicuramente, possiamo imparare, almeno, a guardare chi ci sta intorno, come uomini, e certamente possiamo cominciare a lavorare un po’ più duro per fasciare le ferite fra noi e diventare nei nostri cuori fratelli e connazionali.“
RFK, Aprile 1968
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