Quella nucleare si è rivelata fin dal momento della sua scoperta come una fonte energetica tanto innovativa quanto pericolosa e scarsamente “competitiva” dal punto di vista economico. Nonostante questi presupposti e la manifesta impossibilità da parte del mondo scientifico di valutare concretamente le ricadute di un’applicazione su larga scala degli impianti nucleari, sia in termini di effetti sulla salute umana, sia in termini di conseguenze sull’ambiente, molte nazioni nel corso della seconda metà del novecento hanno investito sul nucleare una quantità sempre più ingente di risorse.
Questo atteggiamento, apparentemente insensato, trova in parte la propria spiegazione nel fatto che l’antieconomicità e la ferale pericolosità dell’energia nucleare sono in larga misura determinate da un unico elemento “di disturbo” che è costituito dalle scorie radioattive, essendo stati fino ad oggi gli incidenti alle centrali presentati come rarissime fatalità.
La gestione delle scorie nucleari rappresenta infatti il vero tallone d’Achille dell’atomo, in assenza del quale l’energia prodotta tramite l’uranio potrebbe essere economicamente assimilata a quella prodotta utilizzando altre fonti quali il petrolio, il gas naturale o il carbone.
La reale complessità dei problemi legati alle scorie radioattive è stata fino ad oggi misconosciuta tanto dai governi quanto dagli esperti, nel palese tentativo di accreditare come economicamente convenienti e sostanzialmente sicuri gli impegnativi programmi energetici basati sul nucleare. Parimenti a quello delle scorie anche il problema della sicurezza degli impianti è stato minimizzato, nonostante le terribili conseguenze degli incidenti che sono stati resi pubblici (di molti non se ne è mai avuta notizia) Chernobyl su tutti, abbiano messo in luce la dimensione di estrema pericolosità della scelta nucleare. Almeno fino a questi ultimi giorni, quando la catastrofe di Fukushima sembra avere costretto il mondo intero ad aprire gli occhi.....
Proprio l’incidente di Chernobyl unitamente alla manifesta impossibilità di nascondere a tempo indeterminato le problematiche legate alle scorie radioattive hanno determinato a partire dalla fine degli anni 80 una diminuzione degli investimenti nell’ambito del nucleare, soprattutto da parte dei paesi tecnologicamente più avanzati. In Italia il referendum del 1987 decretò la rinuncia definitiva a produrre energia tramite l’uranio, ma anche nazioni che traggono dal nucleare una cospicua fetta del proprio fabbisogno energetico come Stati Uniti e Germania stanno dimostrando di credere sempre meno nel nucleare, non avendo messo in cantiere nell’ultimo decennio progetti finalizzati alla costruzione di nuove centrali che sostituiscano quelle prossime alla chiusura.
Questa linea di tendenza improntata ad un certo disimpegno nei confronti del nucleare è però stata messa seriamente in discussione recentemente dall'amministrazione Obama che prima del disastro giapponese aveva manifestato l'intenzione di tornare ad investire sull'atomo, così come da altri governi, compreso quello italiano, che tornano a guardare alle centrali atomiche come ad un obiettivo per il futuro.
Secondo i dati della World Nuclear Association aggiornati al 2004, attualmente nel mondo sono operative 439 centrali nucleari che producono circa il 16% dell’elettricità consumata sul pianeta, corrispondenti a circa il 7% dell’energia.
Negli Stati Uniti gli impianti nucleari in attività sono 103, in Francia 59, in Giappone 54, in Russia 31, nel Regno Unito 23, in Sud Korea 20, in Canada e in Germania 17, in Ucraina 15, in India 14, in Svezia 11, in Spagna e in Cina 9, in Belgio 7, in Slovacchia, nella Repubblica Ceca e Taiwan 6, in Svizzera 5.
Oltre alla quantità degli impianti presenti sui vari territori è interessante notare quale importanza il nucleare rivesta sulla produzione energetica dei singoli paesi. La Francia (prima fra tutti con l’eccezione della Lituania la cui unica centrale nucleare produce l’80% dell’energia consumata) copre tramite l’atomo il 78% dell’intero fabbisogno energetico nazionale, la Slovacchia il 57%, il Belgio il 55%, la Svezia il 50%, l’Ucraina il 46%, la Svizzera, la Slovenia e la Sud Korea il 40%, la Bulgaria il 38%, l’Armenia il 35%, l’Ungheria il 33%, la Repubblica Ceca il 31%, la Germania il 28%, la Finlandia il 27%, il Giappone il 25%, la Spagna e il Regno Unito il 24%, gli Stati Uniti il 20%, la Russia il 17%, il Canada il 12,5% e l’India appena il 3,3%.
La Francia insieme alla Lituania è l’unico paese ad avere basato sul nucleare tutto il proprio programma energetico, fino al punto di produrre tramite l’uranio oltre i tre quarti del proprio fabbisogno energetico. Altre nazioni, in maggioranza di piccole dimensioni, come Slovacchia, Belgio, Svezia, Ucraina, Svizzera, Slovenia, Sud Korea, hanno investito sull’atomo in maniera rilevante e traggono dal nucleare circa la metà dei propri consumi energetici. Alcune fra le nazioni più grandi, come Germania, Giappone, Spagna, Regno Unito, Russia, Stati Uniti, pur possedendo un’ingente presenza di centrali nucleari, traggono dall’atomo solamente il 20,/25% del loro fabbisogno energetico. Per molte altre nazioni come Argentina, Brasile, Cina, India, Messico, Olanda, Pakistan, Romania, l’incidenza della produzione di energia nucleare sulla globalità dei propri consumi è scarsamente rilevante e non arriva a raggiungere il 10%.
Se interpretiamo questi dati alla luce di quelli concernenti le nuove centrali nucleari in costruzione e in progetto nei singoli paesi possiamo renderci conto di come alcune nazioni economicamente emergenti o comunque in fase di forte sviluppo manifestino una grande propensione ad investire sull’atomo, mentre la maggior parte dei paesi tecnologicamente avanzati, con l’esclusione del Giappone e del Canada, si mostri refrattaria ad impegnarsi in nuovi investimenti nell’ambito del nucleare.
In Cina le nuove centrali atomiche in costruzione o in progetto sono 29, in India 33, in Giappone 14, in Russia 13, in Sud Korea 8, in Canada e in Iran 5, in Romania 4, in Turchia 3, in Indonesia, nella Repubblica Ceca, in Vietnam, in Slovacchia 2.
Gli Stati Uniti (prima delle parole di Bush all’ultimo G8) avevano in costruzione un solo reattore nucleare, pur essendo prevista entro pochi anni la chiusura di alcuni impianti giunti alla fine del proprio ciclo di vita. La Germania e il Regno Unito non hanno centrali nucleari né in costruzione né in progetto, anche se molti impianti verranno dimessi nel corso del prossimo decennio, così come la Spagna, la Svezia, la Svizzera, il Belgio, l’Olanda e la Slovenia.
Attualmente ogni anno nel mondo vengono prodotte circa 10.000 tonnellate di scorie nucleari e i rifiuti radioattivi prodotti fino al 2005 si calcola ammontino a 270.000 tonnellate.
I soli Stati Uniti posseggono 40.000 tonnellate di scorie, la Francia 8000 tonnellate, il Giappone 7000 tonnellate e ci riesce difficile immaginare che nessuna di esse fosse accatastata nell'ampissima zona interessata dal terremoto e dallo tsunami di questi giorni, anche se finora nessuno ci ha raccontato che fine abbiano fatto.
Le scorie nucleari derivano dal combustibile esausto originatisi all’interno del reattore nel corso dell’esercizio, ma anche dagli scarti di lavorazione, dai rottami metallici, dagli indumenti protettivi. La loro pericolosità dipende sostanzialmente dallo stato in cui si trovano (solido, liquido o gassoso), dal potenziale di radioattività in esse contenuto e dalla durata nel tempo della loro pericolosità.
Le scorie nucleari vengono suddivise in tre categorie in base al loro grado di radioattività e al periodo temporale di dimezzamento, fatto salvo per una parte di esse che essendo considerata non pericolosa viene dispersa normalmente nell’ambiente, come accade per i reflui del raffreddamento che vengono scaricati direttamente nelle acque dei fiumi.
Le scorie di prima categoria costituiscono circa il 90% del totale, sono classificate come debolmente radioattive e restano pericolose per qualche decina di anni. Esse sono costituite da carta, stracci, indumenti, guanti, soprascarpe, filtri liquidi e derivano oltre che dalle installazioni nucleari anche dagli ospedali , dalle industrie e dai laboratori di ricerca. Un tipico reattore nucleare ne produce annualmente circa 200 m³.
Le scorie di seconda categoria rappresentano circa il 7% del totale, possiedono una radioattività relativamente alta e rimangono pericolose per alcune centinaia di anni. Sono composte dagli scarti di lavorazione, dai rottami metallici, dai liquidi, dai fanghi e dalle resine esaurite e derivano principalmente dalle centrali nucleari, dagli impianti di riprocessamento e dai centri di ricerca.
Le scorie di terza categoria costituiscono solo il 3% del totale ma rappresentano da sole il 95% della radioattività complessiva, vengono definite ad alta attività e la loro carica mortale si prolunga per molte migliaia di anni, fino a 250.000 anni nel caso del plutonio. Sono composte dal combustibile nucleare irraggiato e dalle scorie primarie del riprocessamento e derivano unicamente dalle centrali nucleari e dagli impianti di riprocessamento. Un tipico reattore nucleare ne produce annualmente circa 30 tonnellate che corrispondono una volta riprocessate a 4 m³ di materiale vetrificato.
Il problema dello stoccaggio e della messa in sicurezza delle scorie nucleari appare tanto insormontabile quanto lontano da una possibile soluzione anche in virtù del fatto che in tutto il mondo i rifiuti radioattivi continuano ad accumularsi in maniera sempre più cospicua anno dopo anno. Basti pensare che gli Stati Uniti producono annualmente 2300 tonnellate di rifiuti radioattivi e nella sola Francia si produce una quantità annua di nuove scorie pari a tutte quelle attualmente presenti in Italia.
Il solo smantellamento di una centrale nucleare alla fine della sua vita operativa produce una quantità di scorie di quasi tre volte superiore a quella prodotta durante i 40 anni della sua attività. E per una cospicua parte delle 439 centrali attualmente attive è ormai vicino il momento del pensionamento. Verranno mai smantellate, dal momento che gli stati interessati sembrano non possedere il denaro necessario a condurre un'operazione costosissima di questo genere? O resteranno in piedi per secoli come monumenti radioattivi a testomonianza della scelleratezza dell'essere umano?
Fino ad oggi si è tentato di neutralizzare solamente le scorie nucleari meno pericolose (quelle di prima e seconda categoria) adottando una serie di soluzioni tecniche volte a garantire un minimo grado di sicurezza. Nei paesi membri della IAEA sono attualmente attivi oltre 70 depositi definitivi per rifiuti nucleari a bassa radioattività (circa 300 anni) una dozzina sono già stati chiusi, una decina stanno per chiudere, almeno 20 sono in fase di costruzione e molti altri sono in fase di progettazione.
La maggior parte di essi (circa il 90%) sono costruiti in superficie e costituiti da trincee, tumuli, silos e sarcofaghi di calcestruzzo, volti a garantirne la conservazione in tutte le condizioni prevedibili. Il restante 10% è costituito da depositi posti in cavità sotterranee o in formazioni geologiche profonde.
A garanzia della sicurezza di tali depositi sono state adottate barriere artificiali più o meno complesse (a seconda della rigidità del clima e delle caratteristiche del territorio) e sistemi di monitoraggio ambientale estesi oltre che al deposito anche alle aree circostanti.
Appare comunque evidente come sia un esercizio sillabico privo di senso parlare di sicurezza facendo riferimento ad un periodo temporale di 300 anni. Anche nel caso (non sempre probabile) di una perfetta tenuta delle strutture per tutto l’arco di tempo, subentrerebbe infatti l’altissimo rischio di eventi imponderabili quali attentati terroristici, guerre, terremoti, alluvioni ed incidenti di vario genere, la cui possibilità in un periodo così lungo non è affatto remota.
I depositi definitivi esistenti nel mondo riguardano esclusivamente i rifiuti nucleari a bassa radioattività e viene spontaneo domandarsi cosa sia stato fatto per quanto concerne le scorie di terza categoria ad alta radioattività, minori quantitativamente ma enormemente più pericolose in quanto fonti di radiazioni per decine di migliaia di anni, fino a 250.000 anni.
In realtà per mettere in sicurezza i rifiuti nucleari ad alta radioattività non è stato fatto assolutamente nulla, o meglio tutto il gotha della tecnologia mondiale ha dimostrato di non avere assolutamente né i mezzi né tanto meno le conoscenze tecnico/scientifiche per affrontare un problema che travalica di gran lunga le capacità operative dell’essere umano, qualunque siano le sue competenze tecniche e scientifiche.
Rapportarsi con periodi di tempo il cui ordine è quello delle ere geologiche significa abbandonare ogni stilla di realismo, per rifugiarsi fra le pieghe dell’utopia, dell’incoscienza e della pazzia.
Nulla e nessuno potrà mai prevedere le mutazioni di ogni genere che riguarderanno il pianeta nei prossimi 100/200 mila anni, né individuare luoghi o spazi adatti a stipare in sicurezza le scorie ad alta radioattività in un futuro tanto lontano.
Nonostante ciò, almeno virtualmente, alcune ipotesi sono state prese in considerazione. Una delle più realistiche consiste nel depositare i rifiuti radioattivi dentro formazioni geologiche naturali, profonde centinaia o migliaia di metri. Tale soluzione, che potrebbe avere un senso per quanto concerne le scorie a bassa radioattività, ne diviene priva se riferita ai rifiuti altamente radioattivi, in quanto durante svariate decine di migliaia di anni anche la conformazione di grotte e caverne è per forza di cose destinata a mutare radicalmente.
Fra le opinioni maggiormente condivise a livello scientifico vi è anche quella che ventila il ricorso ad un unico deposito geologico internazionale, localizzato in uno dei luoghi più remoti del pianeta. A questo proposito è nato il progetto Pangea, finanziato da enti internazionali, con il compito d’individuare eventuali aree adatte allo stoccaggio delle scorie. Tale progetto ha finora individuato siti d’interesse nell’area più remota dell’Australia, in Sud America e in Asia, ma che si tratti di un deposito unico o di più depositi il problema resta sempre quello di un’affidabilità limitata al futuro prossimo, a fronte di un investimento di capitale talmente ingente da far diventare quella nucleare la fonte energetica di gran lunga più costosa. Il concentramento delle scorie provenienti da tutti i singoli paesi all’interno di un unico sito comporterebbe inoltre la necessità di fare viaggiare il materiale radioattivo per migliaia di chilometri, determinando rischi incalcolabili ed enormi costi connessi al trasporto di sostanze altamente pericolose.
Alcuni scienziati hanno preso in considerazione anche progetti fantascientifici ma privi di realismo, quali l’invio nello spazio delle scorie nucleari più pericolose, la loro dislocazione nei pressi delle placche tettoniche, nella speranza che vengano risucchiate verso il mantello che ricopre il centro della terra, l’alloggiamento dei rifiuti radioattivi nei ghiacci dell’Antartico.
Che fine hanno dunque fatto e continuano a fare le scorie nucleari di terza categoria destinate a rimanere un pericolo mortale per le prossime 10.000 generazioni?
In alcuni casi purtroppo, essendo divenuto quello dello smaltimento delle scorie un business miliardario, esse sono finite nelle mani di società senza scrupoli che si occupano di “esportarle” nei paesi più poveri, senza le opportune misure di sicurezza o di collocarle in contenitori che vengono poi gettati sul fondo del mare, con devastanti conseguenze dal punto di vista ambientale e sanitario. Nel secolo passato spesso le scorie nucleari sono state gestite in maniera del tutto inadeguata, per mera convenienza economica e mancanza delle opportune conoscenze scientifiche, determinando la contaminazione dei territori e delle persone.
Attualmente quando vengono rispettate le opportune misure di sicurezza, le scorie nucleari di terza categoria, dopo essere state riprocessate e ridotte allo stato di materiale vetrificato vengono alloggiate negli appositi container e stoccate all’interno di strutture provvisorie (generalmente cassoni di calcestruzzo) in attesa di una destinazione definitiva che potrebbe non arrivare mai.
In realtà risultando troppo pericoloso e del tutto inutile l’interramento delle scorie ad alta radioattività, anche qualora si scegliessero come siti di stoccaggio le formazioni geologiche profonde più adatte allo scopo, la scelta generalmente adottata è quella di stiparle in luoghi di superficie facilmente accessibili, confidando nella speranza che l’evoluzione della tecnica “scopra” in un prossimo futuro qualche soluzione accettabile.
Credo sia superfluo sottolineare come questo atteggiamento attendistico, oltre a non dare alcuna risposta al problema, si presenti altamente rischioso, contribuendo a creare i prodromi di una tragedia nel malaugurato caso di catastrofi naturali (terremoti, tsunami, inondazioni e uragani) che l'attualità di questi giorni ci sta insegnando a considerare più reali che mai, o di attacchi terroristici, guerre ed altri eventi bellici, che intervengano a creare i presupposti per un disastro di proporzioni inenarrabili.
di Marco Cedolin
Fonte articolo
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