09/11/11

Tutto tranne democrazia


 Sta succedendo qualcosa. Qualcosa che va oltre la crisi economica: sembra più che altro una crisi di sovranità. E non è la questione di lana caprina che tanto sembra preoccupare i nostri editorialisti di punta, ovvero se sia giusto o meno farsi commissariare dalla UE e dall'FMI rinunciando così - formalmente e pro-tempore - al possesso delle nostre stesse chiavi di casa. E' qualcosa di più profondo, una trama nella trama che si può provare a spiegare in molti modi diversi, ma che non è prudente lasciare che si dipani mentre l'attenzione generale si concentra su alcuni personaggi e non su altri.

  L'interesse che i mercati finanziari e le istituzioni globali dimostrano da qualche tempo nei nostri confronti è sotto gli occhi di tutti, certo, ma non è che la parte superiore dell'iceberg, quella sberluccicante sotto ai raggi del sole. I giornali e le televisioni (chi più, chi meno) ci spiegano che siamo commissariati da una terna di ferro, composta dal Fondo Monetario Internazionale, dall'Unione Europea e dalla Banca Centrale Europea (BCE). Un accerchiamento totale al quale il gioco della speculazione internazionale ci consegna senza possibilità di fuga. Per il nostro stesso interesse - si dice - e per quello dei sottoscrittori del nostro debito dobbiamo realizzare una serie di riforme. E poiché non siamo più credibili, forti pressioni costringono il Governo in carica a rassegnare le sue dimissioni, nonché tutto un popolo a rinunciare alla propria autodeterminazione. Mutatis mutandis è più o meno quanto è accaduto in Grecia.

 Il principio più incredibile che viene sostenuto senza il benché minimo stupore sarebbe quello secondo cui la politica da sola non può realizzare misure impopolari, perché avrebbe il timore di giocarsi il consenso elettorale, per cui sarebbe imperativo affidare le riforme necessarie a un governo di larghe intese, oppure al cosiddetto governo tecnico, magari sotto la direzione di un podestà forestiero. Cosa significa? Se i rappresentanti del popolo, democraticamente eletti, non sono in grado di introdurre una o più misure ritenute necessarie, perché i cittadini non le vogliono, allora va da sé che quelle misure non rappresentano l'espressione della volontà popolare. Dunque, in una democrazia, non dovrebbero essere adottate, o dovrebbero essere posticipate magari dopo l'approvazione di un qualche emendamento condiviso. Il concetto che si sta facendo passare, invece, è che esistono riforme che devono essere realizzate a tutti i costi, al di là della volontà popolare. In altre parole, si sostiene che se la classe politica non è in grado di farsene carico, perché i cittadini non le vogliono, allora deve farlo qualcun'altro. Si materializza cioè per brevi istanti, come in un episodio di Star Trek, una volontà terza e invisibile che prende le decisioni passando sopra ad ogni definizione di democrazia comunemente intesa. Una oligarchia nascosta. O, meglio, una sinarchia.

 Quando la Grecia, non molti giorni fa, ha provato a forzare la mano sulla propria sovranità popolare, annunciando un referendum sulle misure della cosiddetta austerity, il sistema bancario internazionale ha reagito minacciando di non tagliare più il debito pubblico del 50%. George Papandreou è stato quindi convocato a una riunione preliminare del G20 ed è stato costretto a ritirare la proposta referendaria. Ma a quella stessa riunione precongressuale, un altro coinvitato eccellente era sotto torchio insieme al primo ministro greco: il presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi. Date queste premesse, è davvero singolare che il governo greco sia caduto un paio di giorni fa, subito dopo la convocazione al G20, e che quello italiano stia per rassegnare le dimissione pressocché simultaneamente. Ancor più singolare se si prendono in considerazione i punti in comune tra le alternative avanzate in entrambi i casi per rimpiazzare gli esecutivi: due governi tecnici guidati da uomini esterni al meccanismo del consenso popolare, cioè due podestà forestieri: Mario Monti e Lucas Demetrios Papademos.

 Entrambi hanno una formazione consolidata da una lunga permanenza all'estero, negli Stati Uniti. Mario Monti si laurea alla Bocconi ma si specializza all'Università di Yale, mentre Papademos si laurea in fisica e in ingegneria presso il Messachussetts Institute of Technology, dove consegue anche un master in economia. Insegna poi alla Columbia University dal 1975 al 1984 dove, in quegli stessi anni, sta concludendo il suo ciclo di insegnamento anche un signore di nome Zbigniew Brzezinski. Di origini polacche, politologo e geostratega, Brzezinski di lì a poco andrà ad occupare un posto estremamente importante per il governo di Jimmy Carter: dal 1977 al 1981 sarà nel Consiglio di Sicurezza Nazionale americano (NSA), influendo con la sua analisi strategica sul rapporto che gli USA avranno in tutti i processi di trasformazione politica più delicati della nostra storia, dall'invasione sovietica dell'Afghanistan alla guerra fredda fino alla conversione dell'Iran da alleato degli States a nemico giurato. Segnatevi dunque questo nome: Brzezinski, perché fra poco ne riparleremo.

 Le carriere di Monti e di Papademos proseguono di buona lena. Il primo diviene dapprima rettore e poi, alla morte di Spadolini, presidente della Bocconi di Milano. E' International Advisor per Goldman Sachs dal 2005, nonché presidente del think-thank Bruegel, finanziato da 16 Stati e 28 multinazionali con lo scopo di influire privatamente sulle politiche economiche comunitarie. Nel 2010 Barroso gli commissiona un libro bianco sul futuro del mercato unico. Il secondo, il greco, nel 1980 diviene un economista senior della Federal Reserve Bank di Boston e poi della Banca di Grecia, di cui assume la carica di Governatore. Poi addirittura vice Presidente della BCE. E' proprio Papademos a traghettare Atene dalla drachma all'euro. Curioso che adesso sia indicato come la personalità più adatta a rimediare ai danni che, in qualche modo, ha contribuito a produrre.

  E' qui che entra in gioco Zbigniew Brzezinski perché è lui che, nel 1973, viene incaricato da David Rockfeller di avviare un nuovo gruppo di lavoro: la Commissione Trilaterale (The Trilateral Commission). Nata con l'intento dichiarato di sviluppare i rapporti tra gli Stati Uniti, l'Europa e il Giappone, la Commissione Trilaterale è un'organizzazione non governativa e apartitica dove sostanzialmente si discutono le politiche migliori per agevolare le relazioni di interdipendenza reciproca, culturali e - perché no - d'affari. Un luogo di incontro dove i potenti, insomma, possono discutere di ciò che è bene per il mondo senza perdersi nelle lungaggini imposte dai parlamenti e dalle burocrazie diplomatiche. Un club. Un club con tre cariche fondamentali in rappresentanza del Nord America, Giappone ed Europa, quest'ultima ricoperta proprio dal nostro Mario Monti. Che soddisfazione! Ed è certamente significativo che tra i membri della Commissione Trilaterale, dal 1998 figuri anche Lucas Papademos, in virtù dei rapporti che è ragionevole supporre abbia sviluppato negli anni in cui insegnava alla Columbia University insieme a Zbigniew Brzezinski.

  A onor del vero, se l'idea che la Commissione Trilaterale ha della democrazia deriva da quella dei suoi fondatori, non c'è da stare eccessivamente rilassati. Sul St. Petersburg Times, il 2 agosto 1974, Brzezinski pubblica le conclusioni di un rapporto dal titolo molto esplicativo di "The Crisis of Democracy": la crisi della democrazia. Il rapporto evidenzia come negli Stati Uniti l'efficienza della Casa Bianca fosse inficiata da un eccesso di democrazia e come, fin dagli anni '60, i governi dell'Europa dell'est fossero letteralmente sopraffatti dall'eccessiva partecipazione e dalle richieste che le burocrazia farraginose non erano in grado di smaltire, rendendo di fatto i sistemi politici ingovernabili. Il rapporto rimanda a una decisione politica adottata dalla Francia in semisegretezza, senza nessun dibattito pubblico aperto e altamente lobbizzata e conflittuale. Sembra che molti tra i membri della Commissione Trilaterale avessero un ruolo di rilievo nell'amministrazione Carter e fossero molto influenzati dal rapporto di Brzezinski.

  Dunque abbiamo due governi che stanno cedendo simultaneamente il passo alle pressioni internazionali. E abbiamo due podestà forestieri, strettamente legati al mondo della finanza, dei mercati, delle banche ed entrambi membri della Commissione Trilaterale dei Rockfeller. Tutti e due sono in prima linea nella corsa a sostituirsi a due governi democraticamente eletti per prendere decisioni dichiaratamente impopolari. Ovvero, per definizione, contrarie alla volontà popolare.

  Come se questa emorragia di rappresentanza democratica non bastasse, un altro gruppo di lavoro sovranazionale fondato sulla segretezza delle proprie risoluzioni, il gruppo Bilderberg, nell'ultima esclusiva riunione tenutasi nel giugno di quest'anno a St. Moritz ha accolto tra i propri ospiti proprio Mario Monti e, tra gli altri, Giulio Tremonti, forse la più acuminata spina nel fianco della maggioranza, artefice della paralisi che si è infine consumata nella dèbacle parlamentare di oggi.

  Non c'è democrazia senza trasparenza, né può esservi in mancanza di un mandato popolare forte ed esplicito. Tutto può essere, tranne democrazia, la requisizione del nostro diritto di rappresentanza in nome di logiche che vengono assunte a porte chiuse, nelle sedi elettive dove si tutelano interessi privati, dove una ristretta èlite decide le sorti di interi popoli senza che a questi venga garantita una chiara percezione delle cose. Per questo dico che la sovranità popolare, in questo momento, è un concetto chimerico che sta cedendo il passo a una sinarchia di fatto, ovvero un governo ombra che in termini di real politik è sempre esistito, ma che sta diventando dominante, al punto che i suoi effetti iniziano a diventare palesi.

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