da Europa del 16 settembre 2008
Con una chiarezza che è un dono di natura e una sincerità che deriva dalla sicurezza, il capo del governo ha illustrato la “sua” riforma della giustizia.
Gli sono bastati cinque minuti o poco più; le parole, trasparenti, erano accompagnate da gesti plastici, a dimostrare chi saliva e chi scendeva, chi si rafforzava e chi si indeboliva.
Nessun articolo di stampa – certo non questo – nessun intervento parlamentare, nessun disegno di legge darà la sensazione di determinata nitidezza di obiettivi e di strumenti che davano quelle parole e i gesti che le accompagnavano e le avvolgevano.
Questa è, per il capo del governo, la riforma della legislatura, quella che non gli viene chiesta da nessuno, quella su cui i margini di trattativa sono inesistenti, quella che segna il confine tra garantisti e giustizialisti.
Per chi di giustizia si occupa per professione – politica, legale o entrambe le cose – ma anche per i cittadini tutti, potenziali utenti della giustizia, e reali utenti del voto popolare, un documento utile di cui, se possibile, munirsi.
Per cominciare, e fin qui nulla di inatteso, le parti del procedimento passano platealmente da due a tre: l’accusa, che d’ora in poi sarà improprio chiamare pubblica; la difesa legale; al di sopra, il giudice.
La filosofia è quella della sostanziale privatizzazione della funzione accusatoria, che rimarrà in capo ad uno stato arcigno per quanto riguarda mezzi (personali) e strumenti (funzionali ).
La vera disparità con la difesa si realizzerà in relazione alle facoltà finanziarie, sociali e informative del cliente, e potrà diventare una disparità dirimente.
L’altro datore di lavoro, quello pubblico, diventa l’anello debole della catena, specie se la parte privata dovesse trovarsi investita di una funzione istituzionale, quale quella legislativa, o di governo – o le due insieme – o politica. E, quindi, un ruolo di influenza se non di indirizzo dell’attività inquirente, come si ipotizza.
La separazione avviene tra le due carriere (e rispettive funzioni) magistratuali, da un lato, con l’obiettivo di indebolimento di quella inquirente, il cui titolare – sono le parole onestissime del capo del governo – «dovrà dare del lei all’ex collega (e potenziale complice, sembra sotteso) giudice»; volendo conferire con il quale, dovrà prendere regolare appuntamento.
Ma la separazione avviene anche tra cliente e cliente, in relazione alla capacità di avvalersi della procurata, sotto il profilo normativo ma anche psicologico, debolezza funzionale, strumentale e sociale dell’accusa.
Si può anche comprendere, in questo mutato quadro, l’affievolimento del rapporto tra parte inquirente – smettiamola di chiamarlo magistrato, e abituiamoci a definirlo, come suggerisce autorevolmente il capo del governo, avvocato dell’accusa – e funzione di polizia giudiziaria, secondo una ricostruzione giornalistica di questi giorni che si accende delle parole e della chiarezza di obiettivi espressa dal presidente del consiglio.
Non una parola – significa minore interesse? – per le esigenze della giustizia civile, secondo gli addetti ai lavori la più malconcia; non una parola in ordine alla riduzione della durata dei processi, che risentirà dei mutati rapporti di forza tra le parti.
Non un riconoscimento dell’utilità pubblica, anche ai fini della sicurezza collettiva, della funzione dell’accusa, ma piuttosto una sostanziale equiparazione tra interesse dello Stato-comunità e del cittadino imputato.
E un indiretto collegamento tra le due funzioni più autonome e potenzialmente più forti, funzione di difesa e funzione giudicante.
Merita riconoscimento la chiarezza senza reticenze del capo del governo, così come la sua franchezza.
Ma entrambe meritano una riflessione attenta degli addetti ai lavori, per le ripercussioni sul nostro assetto costituzionale in tema di assetto della giurisdizione.
I sistemi istituzionali sono organismi integrali, che non sopportano trapianti parziali, come invece la sconnessione del nostro ordinamento ci fa troppo spesso ipotizzare.
La nostra politica costituzionale tende a sognare mostri costituzionali, in cui convivano il sistema elettorale tedesco (o spagnolo), con il semipresidenzialismo francese piuttosto che con il premierato di uno sfortunato esperimento addirittura israeliano, fermo restando il nostro irrinunciabile sistema parlamentare. Arlecchino e la sua Costituzione.
Così, per il sistema giudiziario, se lo si vuole importare, lo si importa con, quantomeno, un bilanciamento di pesi e contrappesi che non è proprio il nostro forte, o il nostro vanto.
Con la consapevolezza che lo spoils system è l’opposto della nostra artigianale consuetudine di lottizzare tutto e tutti.
Con la disponibilità a prendere, da certi ordinamenti, forme di rigore che impongono l’obbligo delle dimissioni dal governo per mancato versamento di contributi al maggiordomo.
Il tutto senza ridere.
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