01/10/08

Università malata. La denuncia di Roberto Perotti: clientelismo e sprechi

Il bello del calcio è che, qualche volta, può accadere l’impossibile: la Corea del Nord che batte l’Italia, l’Algeria che batte la Germania, Israele che batte la Russia. Il brutto dell’università italiana è che troppo spesso accade l’impossibile. Come all’Università di Bari, dove un concorso del 2002 dichiarò idonea alla cattedra l’aspirante docente Fabrizia Lapecorella, che aveva zero pubblicazioni nelle quattro categorie delle 160 riviste più importanti del mondo, zero nelle prime venti riviste italiane, zero in tutte le altre, zero libri firmati come autore, zero libri come curatrice, zero libri come collaboratrice. E ovviamente zero citazioni fatte dei suoi lavori: come potevano citarla altri studiosi, se non risulta aver mai scritto una riga? Eppure, battendo una concorrente che aveva un dottorato alla London School of Economics, 10 pubblicazioni e 31 citazioni sulle riviste nazionali e internazionali più importanti, vinse lei. Destinata a essere promossa poco più di tre anni dopo, dal terzo governo Berlusconi, direttore del Secit per diventare col secondo governo Prodi esperto del Servizio consultivo e ispettivo tributario e infine, di nuovo con Tremonti, direttore generale delle Finanze. Una carriera formidabile. Durante la quale, stando alla banca dati centrale di tutte le biblioteche italiane, non ha trovato il tempo per scrivere una riga. Sia chiaro: magari è un genio. E forse dovremo essere grati a chi l’ha scoperta nonostante difettasse di quei lavori che all’estero sono indispensabili per diventare ordinari.

Ma resta il tema: con quali criteri vengono distribuite le cattedre nella università italiana? Roberto Perotti, PhD in Economia al Mit di Boston, dieci anni di docenza alla Columbia University di New York dove ha la cattedra a vita, professore alla Bocconi, se lo chiede in un libro ustionante che non fa sconti fin dal titolo: L’università truccata. Gli scandali del malcostume accademico. Le ricette per rilanciare l’università (Einaudi). Un’analisi spietata. A partire, appunto, dal sistema di assegnazione delle cattedre. Dove i casi di persone benedette dalla nomina a «ordinario » con 12 «zero» su 12 in tutte le tabelle delle pubblicazioni e delle citazioni, a partire da quelle del «Social Science Citation Index», sono assai più frequenti di quanto si immagini, visto che Perotti ne ha scovati almeno cinque. Dove capita che il rettore di Modena Giancarlo Pellicani indica una gara vinta dal figlio Giovanni anche grazie alla scelta di non presentarsi di 26 associati su 26. Dove succede che il preside di Medicina a Roma, Luigi Frati, possa vincere la solitudine avendo al fianco come docenti la moglie Luciana, il figlio Giacomo, la figlia Paola. Un uomo tutto casa e facoltà. Che probabilmente diventerà rettore della Sapienza. Superato solo da certi colleghi baresi come i leggendari Giovanni Girone, Lanfranco Massari o Giovanni Tatarano, negli anni circondati da nugoli di figli, mogli, nipoti, generi... Il familismo è però solo una delle piaghe nelle quali il professore bocconiano (che ha l’onestà di toccare perfino il suo ateneo, rivelando che «l’ufficio relazioni esterne della Bocconi impiega circa 100 persone e ha un bilancio di 13 milioni di euro» che basterebbero ad assumere «i migliori docenti di economia degli Usa») affonda il bisturi. A parte quello che «il clientelismo e la corruzione esistono, ma sono tutto sommato circoscritti», Perotti fa a pezzi almeno altri tre miti. Uno è che «il vero problema dell’università italiana è la mancanza di fondi». Non è vero. Meglio: è vero che «le cifre assai citate della pubblicazione dell’Ocse "Education at a Glance" danno per il 2004 una spesa annuale in istruzione terziaria di 7.723 dollari per studente» appena superiore ad esempio a quella della Slovacchia o del Messico. Ma se si tiene conto che metà degli iscritti è fuori corso e si converte più correttamente «il numero di studenti iscritti nel numero di studenti equivalenti a tempo pieno», la spesa italiana per studente «diventa 16.027 dollari, la più alta del mondo dopo Usa, Svizzera e Svezia ». Quanto agli stipendi dei docenti, è verissimo che all’inizio sono pagati pochissimo, ma da quel momento un meccanismo perverso premia l’anzianità (mai il merito: l’anzianità) fino al punto che un professore con 25 anni di servizio da ordinario non solo prende quattro volte e mezzo un ricercatore neoassunto ma «può raggiungere uno stipendio superiore a quello del 95 percento dei professori ordinari americani (...) indipendentemente dalla produzione scientifica».

Altro mito: nonostante tutto, «l’università italiana è eroicamente all’avanguardia mondiale della ricerca in molti settori».Magari! Spiega Perotti che in realtà, al di là della propaganda autoconsolatoria, fra i primi 500 atenei del mondo, secondo la classifica stilata dall’università cinese Jiao Tong di Shanghai, quelli italiani sono 20 e «la prima (la Statale di Milano) è 136ª, dietro istituzioni quali l’Università delle Hawaii a Manoa ». Certo, sia questa sia la classifica del Times (dove la prima è Bologna al 173˚posto) sono fortemente influenzate dalle dimensioni dell’ateneo. Infatti nella «hit parade» pro capite della Jiao Tong 2008 possiamo trovare al 19˚posto la Normale di Pisa. Ma a quel punto le grandi università italiane slittano ancora più indietro: la Statale milanese al 211˚,Bologna al 351˚,la Sapienza addirittura a un traumatico 401˚posto. Da incubo. Quanto al quarto mito, quello secondo cui «l’università gratuita è una irrinunciabile conquista di civiltà, perché promuove l’equità e la mobilità sociale consentendo a tutti l’accesso all’istruzione terziaria», l’economista lo smonta pezzo per pezzo. I dati Bankitalia mostrano che nel Sud (dove il fenomeno è più vistoso) dal 20% più ricco della società viene il 28% degli studenti e dal 20% più povero soltanto il 4%. Un settimo. In America, dove l’università si paga, i poveri che frequentano sono il triplo: 13%. Come mai? Perché al di là della demagogia, spiega l’autore, l’università italiana è «un Robin Hood a rovescio, in cui le tasse di tutti, inclusi i meno abbienti, finanziano gli studi gratuiti dei più ricchi ». Rimedi? «Basta introdurre il principio che l’investimento in capitale umano, come tutti gli investimenti, va pagato; chi non può permetterselo, beneficia di un sistema di borse di studio e prestiti finanziato esattamente da coloro che possono permetterselo». Non sarebbe difficile. Come non sarebbe difficile introdurre dei sistemi in base ai quali il rettore che «fa assumere la nuora incapace subisca su se stesso le conseguenze negative di questa azione e chi fa assumere il futuro premio Nobel benefici delle conseguenze positive». Tutte cose di buon senso. Ma che presuppongono una scelta: puntare sul merito. Accettando «che un giovane fisico di 25 anni che promette di vincere il premio Nobel venga pagato tre volte di più dell’ordinario a fine carriera che non ha mai scritto una riga». Ma quanti sono disposti davvero a giocarsela?

Gian Antonio Stella
30 settembre 2008

Fonte articolo

3 commenti:

  1. Le tre bugie e la mezza verità del professor Perotti.

    È uscito, con straordinaria tempestività, un libro del professore Roberto Perotti dal titolo importante: “L’università truccata”.
    Alcuni contenuti di questo libro sono utilizzati dalla destra al governo per giustificare i tagli all’università italiana, vengono inoltre utilizzati da molti media per una campagna di discredito nei confronti del mondo dell’università e della ricerca. Principalmente per questo motivo credo sia doveroso fare chiarezza su alcuni punti di importanza fondamentale.
    In realtà è possibile dimostrare che nel libro di Perotti ci sono 3 grosse bugie e una mezza verità.

    Perotti sostiene esistono 4 falsi miti riguardo l’Università italiana:

    Secondo Perotti:

    • È falso che all’università italiana mancano le risorse.
    • È falso che i ricercatori italiani siano “poveri ma bravi”, ovvero che nonostante tutto, l’università italiana è all’avanguardia.
    • È falso che il clientelismo è un fenomeno circoscritto.
    • È falso che l’università gratuita è egalitaria.

    Se si va però a leggere con attenzione il libro, in particolare il capitolo 3, non è difficile rendersi conto, per chi è del mestiere, che su tre di questi punti le argomentazioni di Perotti non stanno in piedi, anzi si basano su “errori” grossolani di metodologia. Facciamo notare subito che la cosa è molto strana, considerato il calibro del personaggio. Procediamo però con ordine.

    Prima tesi: non è vero che l’università è sotto finanziata.

    Ora qualunque economista serio che vuole verificare questa tesi, procede per prima cosa andando a verificare quale è la spesa italiana per il sistema universitario in confronto con quella degli altri paesi in rapporto al PIL normalizzato a parità di potere d’acquisto. Se si vanno a vedere questi dati allora la tesi di Perotti appare subito insostenibile: il sistema universitario italiano appare evidentemente sotto finanziato.

    L’autore però usa un metodo diverso per proporre la sua valutazione. Ogni economista sa che se un’impresa è sotto finanziata è facile che essa mostri delle inefficienze. Sa anche che se si va a calcolare la produttività di un sistema sotto finanziato, procedendo quindi a dividere i risultati per i finanziamenti, ci si rende subito conto che questa è bassa mentre il costo del singolo prodotto è alto. La cura è semplice: vanno aumentati i finanziamenti.
    Perotti però magicamente, e ripetiamo, molto stranamente, inverte i ruoli di cause ed effetti. Egli tira fuori un coefficiente: 0.482, che trova in alcuni dati che fornisce il ministero per l’anno 2003 (e si noti che il libro di Perotti è uscito nel 2008), e lo usa per proporre le cose proprio al contrario. Dice che, considerando il grande numero di abbandoni, e considerando che ci sono molti studenti che non frequentano, si deve in realtà andare a contare quanti sono gli “studenti equivalenti a tempo pieno”. Cosi facendo, moltiplicando la spesa per ogni studente iscritto per l’inverso di detto coefficiente, salta fuori un risultato inaspettato: sorprendentemente il costo in Italia per l’università diventa tra i più alti del mondo. Quindi conclude che non è vero che l’università italiana è sotto finanziata. Qualunque economista serio di fronte a questo gioco non può che rimanere alquanto perplesso.

    Ragioniamoci sopra. Il numero che utilizza Perotti cosa misura? È un indice che dice che nel sistema ci sono delle inefficienze. Ma quali sono le cause di questa inefficienza? Sono sicuramente più di una, elenchiamone alcune:
    1. Potrebbe essere che gli studenti italiani non sono sufficientemente bravi, perché poco studiosi, o perché non ben preparati.
    2. Potrebbe essere che l’università italiana sia troppo difficile se confrontata con quella degli altri paesi.
    3. Potrebbe essere che i docenti italiani non fanno bene il loro lavoro.
    4. Potrebbe essere che l’università italiana è sotto finanziata e che il numero di docenti per studente è troppo basso.
    Chi conosce la nostra università sa che tutti questi quattro punti sono in parte veri, ma che è particolarmente importante il quarto. Chi ha frequentato i corsi dei primi anni conosce bene quale è il rapporto tra studenti e professori quando si fa lezione! È questo è il punto fondamentale.

    Supponiamo che vengano aumentati i finanziamenti e si arrivi ad avere più professori per studente e anche un finanziamento più grande per le figure dei tutor (che si occupano appunto di vedere quali problemi hanno gli studenti e come dare loro una mano), quali potrebbero essere gli effetti? Il coefficiente che usa Perotti potrebbe cambiare e potrebbe andare nel verso opposto proprio il rapporto tra spesa ed efficienza del sistema. Rispetto al ragionamento che fa Perotti si avrebbe allora un risultato paradossale: se si aumentano i fondi salta fuori che l’università costa meno!!

    Un esempio numerico: supponiamo un sistema che per ipotesi sia sotto finanziato. Poniamo che costi 100 e produca con efficienza 0,4 un numero N di laureati ogni anno. Il costo complessivo per laureato è allora N/100. Supponiamo ora di spendere più soldi, poniamo 130. Supponiamo che adesso, venendo colmate alcune delle lacune del sistema, l’efficienza passi a 0,8. Cosa succede? Ora sono prodotti 2xN laureati a un costo per laureato che è 2N/130. Quindi, pur avendo speso più soldi, il singolo laureato viene a costare meno!

    Cosa prova questo esempio? Dimostra che l’argomentazione di Perotti non può essere considerata valida.

    Ma ci sono altre cose strane nel metodo di Perotti. Stranamente egli si riferisce a dati del 2003 e ad un altro metodo di valutazione che evita di specificare per bene e che andrebbe a considerare il rapporto tra laureati e iscritti. Ma attenzione bene, il libro è stato pubblicato nel 2008. Tra i dati del 2003 e oggi le cose sono radicalmente cambiate perché in mezzo c’è stata una riforma: il cambio dell’ordinamento al sistema 3+2. Per quale motivo l’autore evita di fare un adeguato riferimento a questa cosa? La riforma del sistema è stata pensata proprio per curare alcuni dei mali del sistema italiano, per limitare i numeri di abbandoni e incrementare l’efficienza della nostra università. È una cosa che ha avuto un qualche successo?
    I dati sono disponibili, anche sul sito dell’ufficio di statistica del ministero. Sono già stati fatti vari studi su questa cosa, e i risultati sono incontrovertibili: l’efficienza del sistema, intesa come capacità di sfornare laureati, è migliorata e di molto!
    Perché Perotti non considera queste cose? Osiamo pensare per un motivo molto semplice. Perché se si va ad utilizzare lo stesso metodo, per altro sbagliato, invece che sui dati del 2003, su altri più aggiornati che tengono conto della riforma, allora comunque il giochetto non riesce. Il costo medio per “studente equivalente a tempo pieno” risulterebbe comunque inferiore alla media degli altri paesi industrializzati.

    Ora tutto questo è molto strano. Perotti non è sicuramente uno sprovveduto. Non può ignorare alcuni di quelli che sono i principi elementari dell’economia di impresa.



    Seconda tesi del perotti:
    Non è vero il mito del “poveri ma bravi”.

    Anche in questo secondo caso troviamo un errore metodologico di base che è stupefacente. Perotti fa riferimento ad una serie di dati che valutano la produzione globale del sistema di ricerca italiano, e mostra che non è poi così brillante. Ma attenzione bene: il falso mito che lascia intendere di voler smascherare è che non è vero che i ricercatori italiani sono “poveri ma bravi”. Se vuole far questo allora deve fare la cosa più elementare: andare a calcolare quale è il rapporto tra i risultati della ricerca rispetto a quanto questa è costata. Deve cioè andare a valutare quella che è la produttività del sistema. Sembrerebbe una cosa ovvia. Ebbene Perotti semplicemente non lo fa, non ci prova nemmeno.
    E se si fanno i conti della produttività cosa salta fuori? Lo ha fatto il professore U. Amaldi andando a considerare proprio una delle fonti citate dal Perotti: un noto articolo di Sir David King apparso nel 2004 nella prestigiosa rivista Nature. I risultati: i ricercatori italiani sono effettivamente tra i più produttivi del mondo.

    Non ci credete? Verificate voi stessi. Consiglio il link:
    http://www.buconero.eu/2008/11/il-prof-ugo-amaldi-sulla-ricerca-italiana/

    Anche in questo caso questo “l’errore” di metodo da parte del Perotti ha dell’incredibile. Per un professore di economia con il suo curriculum, che insegna alla Bocconi appare semplicemente impossibile.


    Vediamo ora la quarta tesi di Perotti.

    Non è vero che il sistema italiano è egualitario perché gratuito.

    Per argomentare la sua tesi mostra il confronto tra il rapporto tra il numero di laureati per fasce di reddito in Italia e negli USA. Solo che anche qui fa una cosa strana Si limita a mostrare il rapporto tra la percentuale della popolazione che ha accesso ad un titolo di studio universitario confrontando il quintile più ricco e quello più povero delle rispettive popolazioni nei due paesi. Mettendo cosi i dati trae la conclusione che il sistema americano è più “egalitario del nostro.
    Ma è un confronto sensato? Chi conosce come funziona la scuola italiana e quella americana, sa che il contesto è completamente diverso. Quel quintile più povero che da noi mostra di ottenere mediamente meno lauree in realtà non supera nemmeno la scuola superiore. Perché il Perotti non mostra l’intera distribuzione ma solo il rapporto tra questi due quintili e solo per gli USA? Perché non fa alcun accenno alle differenze fondamentali tra i due sistemi scolastici? Perché non fa menzione del fatto che in Italia una laurea è assai meno importante che negli stati uniti al fine di ottenere successo economico nella propria vita?


    Credo che risulti evidente per ogni persona onesta che ben tre dei quattro falsi miti di Perotti sono nel migliore dei casi delle “grosse forzature”.

    Credo si possa invece dimostrare fuori di ogni ragionevole dubbio che:
    • È vero che l’università e la ricerca in Italia sono cronicamente sotto finanziate.
    • È vero che nonostante questo i ricercatori italiani ottengono ottimi risultati in termini di produttività scientifica.
    Inoltre è anche probabilmente vero che il sistema Italiano proprio perché pubblico è più egalitario rispetto a un sistema privato.


    Per quanto riguarda l’altro “falso mito” di Perotti credo sia fondamentale inquadrare le cose nel giusto contesto.
    È vero che in Italia ci sono moltissimi concorsi truccati, ed vero che in alcuni dipartimenti esistono baroni che spadroneggiano e che fanno assumere i loro rampolli.
    Ma il clientelismo e il nepotismo presente in parte del’università Italiana è una minuscola frazione rispetto a quello che esiste in tutto il resto della pubblica amministrazione.
    I “professori corrotti” sono in proporzione molti meno rispetto ai funzionari pubblici.
    Penso possiamo dimostrare che l’università italiana è di gran lunga più pulita del contesto che la circonda e la grande maggioranza dei suoi docenti sono dei galantuomini.

    È vero che molti concorsi sono “tagliati su misura”. Ma per la maggior parte dei casi si tratta di concorsi destinati a stabilizzare ricercatori di indubbio valore che hanno alle spalle almeno una decina d’anni di precariato svolto con stipendi ridicoli. Si tratta persone che stanno spesso seguendo già da anni una linea di ricerca il cui alto valore è riconosciuto a livello internazionale. Bisogna non dimenticare che la ricerca moderna richiede livelli di specializzazione notevolissimi. Per arrivare a questi livelli è necessario impegnarsi per molti anni dopo la laurea.
    La maggior parte dei concorsi che sono tagliati su misura, lo sono, non perché ci siano baroni disonesti, ma perché procedere in questo modo è una precisa necessità dovuta essenzialmente al fatto che il sistema è pesantemente sotto-finanziato. Semplicemente si è costretti dalla legge a bandire dei concorsi per effettuare quelle che a tutti gli effetti sono delle stabilizzazioni utili e necessarie.
    Consideriamo un esempio. Supponiamo ci sia un’azienda che opera su un settore di alta tecnologia e che richiede quindi professionalità specifiche di alto livello. Supponiamo che in questa azienda lavorino da dieci anni, ma con contratto da precario, persone che nel tempo hanno acquisito, grazie ad un grande impegno, un know-how notevolissimo. Ritenete che, qualora si presenti la possibilità di effettuare delle assunzioni a tempo determinato per quelle specifiche professionalità, i responsabili dell’azienda possano davvero pensare di bandire un concorso pubblico?
    Davvero si devono fare concorsi pubblici non tagliati su misura correndo il rischio concreto che il candidato interno, che già lavora sul quel settore e su quella ricerca da dieci anni, possa essere mandato via di punto in bianco? Pensate davvero che un’altra persona sia in grado subito di acquisire tutte le competenze specifiche? Quanti anni di lavoro e di investimenti andrebbero buttati via così facendo? E la persona che ha lavorato per tanto tempo e che si trova senza lavoro cosa dovrebbe fare? Provare concorsi altrove? E se anche vincesse in altra regione potrebbe permettersi di punto in bianco di andare a vivere in altra città? Parliamo di persone di 35-45 anni, spesso con famiglia e muto a carico. Sapete quale è lo stipendio di ingresso di un ricercatore universitario: 1200 euro al mese per i primi tre anni. Chi può permettersi in Italia di fare una cosa del genere? Chi può chiedere alla propria moglie o al proprio marito di rinunciare al rispettivo lavoro che nella maggior parte dei casi è molto meglio pagato? In quanti si potrebbero davvero permettere di fare una cosa del genere e quanti invece dovrebbero rinunciare a fare ricerca, per ripiegare in un altro lavoro?
    Chi lavora dentro il sistema universitario italiano in discipline quali fisica, matematica, ingegneria, biologia, e molte altre, sa benissimo come stanno le cose. Buona parte dei precari della ricerca sono obbligati dalle circostanze a cambiare lavoro e andare a fare altre cose ( tipicamente l’insegnante di scuola media o superiore), non perché non siano persone di alto valore, ma per il fatto che a causa di vincoli famigliari e affettivi non possono permettersi di lasciare tutto e andare all’estero.
    Questo accade esattamente per il fatto che in Italia la ricerca e l’università sono cronicamente sotto finanziate. Dovendo operare in una situazione di questo tipo moltissimi docenti, che sono galantuomini di indubbio valore etico e morale, sono costretti dalle circostanze a chiedere concorsi tagliati su misura. Sono anche costretti molte volte a chiedere che in vari concorsi sia data la precedenza ad un candidato considerevolmente più anziano a scapito di uno più giovane ma più brillante, e sono costretti a chiedere a quest’ultimo di aspettare. Fanno questo non per baronismo o clientelismi vari, ma per consentire ad una persona di oggettivo valore di continuare a dare il suo prezioso contributo alla collettività. Per consentire a questa persona di non vedere sprecati tanti anni di sacrificio e di studio, che spesso sono gli anni migliori della propria esistenza.

    Se si fa la somma di tutti i precari e di tutti coloro che sono già strutturati in Italia, il numero che ne risulta è ancora ben inferiore al numero di ricercatori che lavorano in paesi quali la Francia, il Regno Unito, la Germania per non parlare, fatte le debite proporzioni, del resto dell’Europa occidentale, degli USA, del Giappone.
    In Italia ci sono tanti precari per il semplice fatto che c’è molto lavoro da fare. Il mercato della ricerca richiede questo lavoro. In un paese moderno e industrializzato c’è bisogno di queste persone e di questi numeri. Ci sono tanti precari perché la nostra università per cercare di stare al passo con i tempi ha un bisogno disperato di fare al suo interno una ricerca che possa confrontarsi con il resto del mondo. Solo facendo una ricerca di buon livello i docenti possono acquisire un know-how effettivo ed aggiornato. Solo a queste condizioni essi possono poi formare i medici e gli ingegneri di cui abbiamo bisogno. Per miopia cronica della politica e dei privati il settore università e ricerca è pesantemente sotto-finanziato. Dovendo operare in queste condizioni il sistema è costretto a ricorrere a contratti atipici poiché costano molto meno di un contratto regolare.

    Non esiste statistica serie che non confermi in maniera indubitabile questa realtà dei fatti.

    Il sistema della ricerca italiano produce benessere e ricchezza. La ricchezza materiale prodotta per la collettività è molto superiore alle spese sostenute. Il problema è che il prodotto non è direttamente subito vendibile sul mercato e i frutti si vedono spesso dopo molti anni. Ma se si effettua un’analisi attenta di quello che è stato il contributo di scienziati e ricercatori che si sono laureati in Italia si scopre che molti di essi hanno avuto un ruolo fondamentale nelle moderne tecnologie. La ricerca paga è un ottimo investimento.

    Abbiamo visto che molti concorsi sono pilotati per necessità. È oggettivamente una stortura del sistema che si debba ricorrere a questi espedienti. È proprio a causa dell’esistenza di questo problema reale che si sono determinate in molti dipartimenti le condizioni che hanno consentito, a persone meno oneste degli altri, di approfittare della situazione per promuovere non gente di valore con tanti anni di precariato alle spalle, ma per favorire “amici e parenti”.
    Ci sono varie soluzioni a questo problema. Ma tutte richiedono in primo luogo maggiori risorse per finanziare in maniera adeguata il prezioso lavoro dei precari di valore e per dare loro delle prospettive accettabili per il futuro. Solo se ci saranno queste risorse, si potrà curare il sistema ed eliminare quell’humus, quella situazione distorta, che ha consentito al marcio di proliferare.

    I precari, i ricercatori e i docenti dell’università e degli enti di ricerca Italiani sono nella grande maggioranza persone di alto valore e d’indubbia onestà, sono persone che lavorano moltissimo e che hanno dedicato allo studio i loro migliori anni, con il sogno di poter dare un contributo al progresso e al benessere dell’umanità.

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  2. Grazie al Prof. Perotti è stato pubblicato un libro coraggioso sull'Università italiana che non è altro - parola di chi ci lavora - una grande discarica dove le persone oneste e volenterose si contano sulle dita di una sola mano per ciascuna facoltà!
    Non c'è nessuna competitività internazionale e nazionale, semplicemente perché chi detiene il potere - esattamente come le associazioni mafiose - ha a cuore soltanto il proprio tornaconto personale momentaneo.

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  3. L'università 'pubblica' italiana va avanti per autopoiesi. Loro decidono chi deve continuare la specie. Ho provato 3 concorsi per entrare nel mondo della ricerca...e mi sono accorto subito di diverse stranezze. L'Italia non mi avrà più. Ho deciso di andarmene. L'intera classe dirigente e amministrativa di questo Paese è da....lasciamo stare. L'emigrazione è l'alternativa alle guerre civili...e così è da troppo tempo.

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