30/11/08

Spacciatori di rifiuti. In mare.

Le parole aiutano, è vero. Ma a volte ingannano. Nel settore dei rifiuti, per esempio, i nomi di quasi tutte le imprese finiscono per «eco». Mentre nel traffico illegale dei rifiuti «eco» è diventato un prefisso, e tutti diciamo «ecomafia». In entrambi i casi, quell'«eco» tranquillizza. Poiché ci consegna un mondo ben diviso in due: l'uno «eco» per male (l'ecomafia), l'altro «eco» per bene (la preoccupazione ambientale inserita nella ragione sociale). E invece questo è l'inganno più sottile e meglio riuscito degli ultimi venticinque anni.

Nel racconto-verità Navi a perdere, scritto con la consueta bravura da Carlo Lucarelli per la collana Verdenero di Edizioni Ambiente (da domani in libreria), di questo si parla. Di come si «smaltiscono» i rifiuti più pericolosi, anche quelli radioattivi, facendo credere che tutto avvenga in maniera «eco» («eco-logica» ed «eco-nomica», dunque: «eco-compatibile»). In realtà, le file di camion carichi di fanghi industriali cancerogeni, che viaggiano di notte e per lo più dal Nord al Sud della penisola (dalla Toscana alla Puglia, per esempio), sversano tutto in discariche «controllate» per modo di dire o addirittura in aperta campagna. E lo fanno senza incontrare sul proprio cammino grandi resistenze (che, se vi fossero, sarebbero rapidamente vinte dalla «moral suasion» dei mitra che scortano quei carichi) o grandi controlli di polizia (che, quando ci sono, vengono vissuti con fastidio dalla Legge che dovrebbe reprimerli, dall'Economia che potrebbe risentirne e dalla Informazione che, per carità, non vorrebbe allarmare). Non ci sono però soltanto i camion. Ci sono anche le navi. Ve le ricordate? Le abbiamo chiamate «navi dei veleni».

Trasportano rifiuti d'ogni genere, persino diossine e scorie radioattive, dal mondo opulento al mondo dei morti di fame. Da Nord a Sud, appunto. Per questo «eco-servizio» il Nord paga il Sud, spesso anche in armi, e il Sud vende al Nord i suoi diamanti e la sua droga, se li ha, oppure vende la sua terra. Meglio, il suo sottosuolo: se ci date le armi, o i soldi per comprarle, le vostre porcherie potete sotterrarle qui da noi. Ha funzionato così per anni, anche in base ad accordi fra Stati, e funziona ancora così, nonostante le indignate condanne pubbliche. Lucarelli mette in fila alcuni fatti realmente accaduti e li fa «parlare». Non fa «dietrologia», ragiona. Non cerca il «giallo» a tutti i costi, si documenta. E poiché la realtà è molto più ricca di retroscena di quanto la «dietrologia» non riesca a produrne, ecco che Lucarelli riesce ad argomentare in maniera impeccabile, rendendola credibilissima, l'ipotesi della morte dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (Mogadiscio, 20 marzo 1994) come un duplice assassinio premeditato (e non l'iniziativa di un balordo). Un duplice assassinio commissionato in seguito alla scandalosa scoperta fatta da Ilaria e Miran. Un traffico «armi per rifiuti» tra l'Italia e la Somalia.

Il traffico di rifiuti è un'attività miliardaria. Rende più del traffico di droga. E se si tratta di roba che scotta, per esempio le scorie radioattive o le sostanze più tossiche e nocive, ecco che le navi sono l'ideale. Ne compri qualcuna malandata, la carichi di tutta questa roba, la porti in mezzo al mare, simuli un naufragio, la fai inabissare e oltre ai soldi dello «smaltimento» prendi anche i soldi dell'assicurazione. È difficile fregare i Lloyd's di Londra, eppure anche loro ci sono cascati. Quando se ne sono accorti, hanno denunciato una truffa di almeno 500 milioni di dollari per aver assicurato ben 25 «navi a perdere». Tutte naufragate in maniera a dir poco sospetta. Tutte colate a picco nel Mediterraneo. La procura di Reggio Calabria, invece, ha sempre sostenuto che le navi cariche di scorie radioattive affondate con questo sistema nel Mare Nostrum erano almeno 40. Mentre Legambiente, che denunciò questa strana battaglia navale fatta di autoaffondamenti, dice che sono 50 e qualcun altro 100. Senza contare le scorie finite sotto il mare grazie a un originale sistema di smaltimento realizzato in barba a ogni convenzione internazionale (la London Dumping Convention del 1972, il Protocollo di Londra del 1996).

Il sistema si chiama Penetrator ed è un siluro d'acciaio pieno di scorie radioattive che una nave porta in alto mare e lascia cadere. Il siluro pesa circa 300 tonnellate e si inabissa alla velocità di 220 chilometri orari, conficcandosi nel fondale marino, dove dovrebbe «resistere» per un milione di anni. Poiché ogni Penetrator è (dovrebbe essere) anche «schedato», grazie a un'antenna fissata sulla coda che trasmette a un satellite il segnale della sua presenza in quel preciso punto del sub fondale, non dovrebbe essere complicato sapere quanti ce ne sono nel Mediterraneo. Invece non si sa. O, se si sa, è segreto. Nemmeno delle «navi a perdere» si sa quante sono. Non risulta che il governo italiano, nonostante sia stato denunciato alla Commissione europea per i Diritti dell'Uomo, abbia mai finanziato una perizia radiometrica sul contenuto delle navi affondate nel Mediterraneo. Bastavano — lo scrivemmo anche noi del «Corriere», nel 1996 — cinque miliardi di lire. Invece, niente. E così nemmeno i magistrati inquirenti hanno potuto fare granché. «Ci spiano — dissero — e ci oppongono chiusure istituzionali». Ma non accadde nulla. Il racconto di Carlo Lucarelli, che nasce da una nave che invece di affondare finì spiaggiata sulla costa calabra, lasciando immaginare cosa era accaduto alle altre 25, 40 o 100 «navi dei veleni» ci obbliga a riflettere e ci stimola a volerne sapere di più. Cosa sappiamo, per esempio, di Natale De Grazia, il capitano di fregata della Capitaneria di porto di Reggio Calabria morto in maniera strana, a 38 anni, quando godeva di ottima salute e proprio mentre indagava con passione su queste «navi a perdere»? Niente, non sappiamo niente. E, invece, sarebbe il caso che qualche magistrato prenda in mano il libro di Lucarelli e vada a leggere cosa disse nel 2004 il presidente Carlo Azeglio Ciampi quando, elogiandone il lavoro straordinario, assegnò a De Grazia la medaglia d'oro alla memoria. De Grazia, disse Ciampi, ha lavorato «nonostante pressioni e atteggiamenti ostili».

di Carlo Vulpio

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