I pochi che hanno letto Il Girone delle Polveri Sottili forse lo ricordano. Del resto, io non ne ho mai fatto mistero: se una sorte impietosa mi costringerà a dover vivere un’altra vita dopo aver portato a faticoso compimento questa, prego il cielo che mi faccia abbastanza saggio da non cadere negli errori in cui sono caduto. Se quella saggezza mi fosse concessa, certo rifarei ben poco. Quasi niente.
Questo è ciò che ho voluto ripetere nelle ultime righe del post dedicato a Mario Lagi, un ragazzo che, se non imparerà in fretta a diventare cattivo come si conviene ad un membro del consorzio umano, avrà di che soffrire.
Io la lezione l’ho imparata tardi, quando ormai la caduta era senza possibilità di ritorno. Comunque, temo che, se anche me ne fossi accorto prima, molto prima, ci sarei cascato lo stesso. E la colpa è di mia madre, mia madre che ora, mentre scrivo, è a due metri da me, ad occhi chiusi su di un letto e non ha nemmeno la forza di morire, mangiata con sadica lentezza da un cancro di cui sarebbe imbarazzante conoscere l’origine. Fu mia madre, non a chiacchiere ma con l’esempio, a traviarmi: ad insegnarmi fallacemente che non si può essere vili e che quando hai la possibilità di dare una mano al tuo prossimo non hai scelta e lo devi fare. Non hai scelta… Se non hai scelta, non c’è merito. E non c‘è nemmeno morale.
E, invece, la scelta c’è ed è obbligata per mero spirito di sopravvivenza: non c’è che da scegliere di girarsi dall’altra parte se si vuole vivere. Vivere magari persino felici. Felici, e addirittura con il rispetto, finanche l’ammirazione, di quel prossimo che si è abbandonato alla malora del suo destino. Perché la cosa che, fra tutte, si odia di più è dovere dire grazie.
Io il grazie non l’ho mai preteso. Anzi, m’imbarazza. Eppure, a scanso di equivoci, per non correre il rischio di dover pronunciare quella parola così agra da partorire, l’Homo felix – felix per distinguerlo dal sapiens in estinzione – si è premunito: una manna dal cielo per le canaglie che io ancora mi affanno a combattere (non ridete) per il bene comune.
Da lì, da quella reazione in fondo così tipica dell’uomo, con me totalmente indifeso per la mia patetica ingenuità imprevidente, per l’avversione a quel grazie arrivano tutto il fango che mi è stato lanciato addosso e tutti i giochetti, tanto rozzi quanto efficaci, per togliermi anche questa volta lo strumento di lavoro senza il quale non avrei quelle novità per tanti versi e a tanta varietà di persone così sgradevoli da comunicare.
Io ho detto che qualcuno mi vuole togliere il microscopio. Qualcun altro mi chiede se io ne abbia le prove. La risposta è sì. Qualcun altro ancora mi chiede se so che la cosa avverrà dopo le elezioni. La risposta è che credo che quella sia la logica: un atto del genere compiuto ora rischierebbe di far perdere una manciata di consensi. Dopo il 7 giugno (auguri: è il mio compleanno!), la cosa non comporterebbe rischi e, sia come sia, allora il gioco varrà la candela.
Se la manovra ci sarà, ne garantisco il successo: quel microscopio per il quale mi sono massacrato, per il quale IO ho raccolto gran parte del denaro correndo a mia cura e spese su e giù per l’Italia, tenendo oltre 200 conferenze al termine delle quali mi appellavo al buon cuore di chi non aveva pagato un centesimo per quattro ore d’informazione scientifica di prima mano e non di rifritture di scoperte o di studi altrui, quel microscopio che io, da quello sciocco che sono, ho lasciato, ho addirittura preteso, che appartenesse ad alti, è stato l’emblema della mia rovina.
Garantisco il successo, anche perché saranno in quattro gatti ad alzare un dito e a gridare nel deserto tutto il loro orrore e, dunque, chi mi toglierà quell’aggeggio avrà di fatto campo libero.
Ora, alla soglia dei sessant’anni, mi sveglio e mi scopro pieno di debiti. Nemmeno i soldi per pagare l’affitto. Mi sveglio e scopro che tutto quello che costruisco con una fatica immane è fragile ben più delle case in Abruzzo, e basta un soffio beffardo di un qualunque cialtrone per fare polvere di tutto. Mi sveglio e scopro ciò che mi fa più male di ogni altra cosa, forse più ancora del tradimento dei falsi amici: l’Homo felix non vuole rompiscatole intorno. Se morire si deve, si muoia in allegria, con la benda sugli occhi e, magari, per overdose di euforizzanti. Dunque, fuori dai piedi!
A testimonianza di quell’atteggiamento che io, stoltamente, non avevo previsto, il calo verticale delle visite a questo blog, ormai frequentato solo da soliti quattro masochisti che si ostinano a farsi del male, a non voler chiudere gli occhi. A voi, compagni d’avventura, un consiglio: andatevene. Andatevene al ballo degli uomini felici, a spendere in allegria le fortune dei vostri figli con le prostitute di regime, i professori di plastica, i politici da farsa e da galera, i giornalisti pagati a riga, gl’imprenditori con i soldi nostri. Stare qui non conviene a nessuno: non si balla e non si ride.
Io, ormai, non ho gran che da perdere: alla mia età non troverò di sicuro un lavoro che mi permetta di sbarcare il lunario, e quando arriverà l’età della pensione, ammesso che una pensione me la diano e i nostri timonieri non si siano mangiata anche quella, non arriverò ai 300 Euro al mese. E allora? Allora non ho altra scelta se non continuare finché, in qualche modo, ce la faccio ad andare avanti. Dunque, non mi date più la pacca sulle spalle dicendo “Non mollare.” Non mollo. Non mollo perché non ho altra scelta. Non faccio l’eroe: è semplicemente che affondo con la nave non per scelta ma perché la nave non ha scialuppe.
Alla fine, perse tutte le battaglie, è paradossalmente inevitabile che io vinca la guerra. Anzi, sarà la Natura a vincerla per me, e, quando la Natura vincerà, io sarò ancora più infelice di quanto non lo sia adesso, sempre che la cosa sia possibile.
Ora non mi resta che sperare nel perdono di mia moglie che non ho avuto il coraggio di mandare al diavolo quando mi comunicò la sua rovinosa scoperta. Non avrei dovuto sopravvalutarmi buttandomi ad aiutarla. Avrei dovuto impormi e convincerla di lasciar perdere, e questo anche per il bene suo.
E non mi resta che sperare nel perdono dei miei figli cui non ho saputo garantire un trampolino, pur minimo, per il futuro e cui non ho saputo insegnare come si sopravvive nella jungla.
Mia madre l’ho già perdonata: ha sbagliato, ma non poteva darmi altro che quello che aveva.
Quanto a me, io ho pensato troppo più grande di me: ho presunto di salvare il prossimo che credevo fosse il mondo intero. Invece aveva ragione Gesù: il prossimo è chi ti sta vicino. E chi ti è più vicino di te stesso?
Questo è ciò che ho voluto ripetere nelle ultime righe del post dedicato a Mario Lagi, un ragazzo che, se non imparerà in fretta a diventare cattivo come si conviene ad un membro del consorzio umano, avrà di che soffrire.
Io la lezione l’ho imparata tardi, quando ormai la caduta era senza possibilità di ritorno. Comunque, temo che, se anche me ne fossi accorto prima, molto prima, ci sarei cascato lo stesso. E la colpa è di mia madre, mia madre che ora, mentre scrivo, è a due metri da me, ad occhi chiusi su di un letto e non ha nemmeno la forza di morire, mangiata con sadica lentezza da un cancro di cui sarebbe imbarazzante conoscere l’origine. Fu mia madre, non a chiacchiere ma con l’esempio, a traviarmi: ad insegnarmi fallacemente che non si può essere vili e che quando hai la possibilità di dare una mano al tuo prossimo non hai scelta e lo devi fare. Non hai scelta… Se non hai scelta, non c’è merito. E non c‘è nemmeno morale.
E, invece, la scelta c’è ed è obbligata per mero spirito di sopravvivenza: non c’è che da scegliere di girarsi dall’altra parte se si vuole vivere. Vivere magari persino felici. Felici, e addirittura con il rispetto, finanche l’ammirazione, di quel prossimo che si è abbandonato alla malora del suo destino. Perché la cosa che, fra tutte, si odia di più è dovere dire grazie.
Io il grazie non l’ho mai preteso. Anzi, m’imbarazza. Eppure, a scanso di equivoci, per non correre il rischio di dover pronunciare quella parola così agra da partorire, l’Homo felix – felix per distinguerlo dal sapiens in estinzione – si è premunito: una manna dal cielo per le canaglie che io ancora mi affanno a combattere (non ridete) per il bene comune.
Da lì, da quella reazione in fondo così tipica dell’uomo, con me totalmente indifeso per la mia patetica ingenuità imprevidente, per l’avversione a quel grazie arrivano tutto il fango che mi è stato lanciato addosso e tutti i giochetti, tanto rozzi quanto efficaci, per togliermi anche questa volta lo strumento di lavoro senza il quale non avrei quelle novità per tanti versi e a tanta varietà di persone così sgradevoli da comunicare.
Io ho detto che qualcuno mi vuole togliere il microscopio. Qualcun altro mi chiede se io ne abbia le prove. La risposta è sì. Qualcun altro ancora mi chiede se so che la cosa avverrà dopo le elezioni. La risposta è che credo che quella sia la logica: un atto del genere compiuto ora rischierebbe di far perdere una manciata di consensi. Dopo il 7 giugno (auguri: è il mio compleanno!), la cosa non comporterebbe rischi e, sia come sia, allora il gioco varrà la candela.
Se la manovra ci sarà, ne garantisco il successo: quel microscopio per il quale mi sono massacrato, per il quale IO ho raccolto gran parte del denaro correndo a mia cura e spese su e giù per l’Italia, tenendo oltre 200 conferenze al termine delle quali mi appellavo al buon cuore di chi non aveva pagato un centesimo per quattro ore d’informazione scientifica di prima mano e non di rifritture di scoperte o di studi altrui, quel microscopio che io, da quello sciocco che sono, ho lasciato, ho addirittura preteso, che appartenesse ad alti, è stato l’emblema della mia rovina.
Garantisco il successo, anche perché saranno in quattro gatti ad alzare un dito e a gridare nel deserto tutto il loro orrore e, dunque, chi mi toglierà quell’aggeggio avrà di fatto campo libero.
Ora, alla soglia dei sessant’anni, mi sveglio e mi scopro pieno di debiti. Nemmeno i soldi per pagare l’affitto. Mi sveglio e scopro che tutto quello che costruisco con una fatica immane è fragile ben più delle case in Abruzzo, e basta un soffio beffardo di un qualunque cialtrone per fare polvere di tutto. Mi sveglio e scopro ciò che mi fa più male di ogni altra cosa, forse più ancora del tradimento dei falsi amici: l’Homo felix non vuole rompiscatole intorno. Se morire si deve, si muoia in allegria, con la benda sugli occhi e, magari, per overdose di euforizzanti. Dunque, fuori dai piedi!
A testimonianza di quell’atteggiamento che io, stoltamente, non avevo previsto, il calo verticale delle visite a questo blog, ormai frequentato solo da soliti quattro masochisti che si ostinano a farsi del male, a non voler chiudere gli occhi. A voi, compagni d’avventura, un consiglio: andatevene. Andatevene al ballo degli uomini felici, a spendere in allegria le fortune dei vostri figli con le prostitute di regime, i professori di plastica, i politici da farsa e da galera, i giornalisti pagati a riga, gl’imprenditori con i soldi nostri. Stare qui non conviene a nessuno: non si balla e non si ride.
Io, ormai, non ho gran che da perdere: alla mia età non troverò di sicuro un lavoro che mi permetta di sbarcare il lunario, e quando arriverà l’età della pensione, ammesso che una pensione me la diano e i nostri timonieri non si siano mangiata anche quella, non arriverò ai 300 Euro al mese. E allora? Allora non ho altra scelta se non continuare finché, in qualche modo, ce la faccio ad andare avanti. Dunque, non mi date più la pacca sulle spalle dicendo “Non mollare.” Non mollo. Non mollo perché non ho altra scelta. Non faccio l’eroe: è semplicemente che affondo con la nave non per scelta ma perché la nave non ha scialuppe.
Alla fine, perse tutte le battaglie, è paradossalmente inevitabile che io vinca la guerra. Anzi, sarà la Natura a vincerla per me, e, quando la Natura vincerà, io sarò ancora più infelice di quanto non lo sia adesso, sempre che la cosa sia possibile.
Ora non mi resta che sperare nel perdono di mia moglie che non ho avuto il coraggio di mandare al diavolo quando mi comunicò la sua rovinosa scoperta. Non avrei dovuto sopravvalutarmi buttandomi ad aiutarla. Avrei dovuto impormi e convincerla di lasciar perdere, e questo anche per il bene suo.
E non mi resta che sperare nel perdono dei miei figli cui non ho saputo garantire un trampolino, pur minimo, per il futuro e cui non ho saputo insegnare come si sopravvive nella jungla.
Mia madre l’ho già perdonata: ha sbagliato, ma non poteva darmi altro che quello che aveva.
Quanto a me, io ho pensato troppo più grande di me: ho presunto di salvare il prossimo che credevo fosse il mondo intero. Invece aveva ragione Gesù: il prossimo è chi ti sta vicino. E chi ti è più vicino di te stesso?
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