08/07/09

CINA E RUSSIA NEL MIRINO DELLA GEOPOLITICA FINANZIARIA

«I paesi del G8 non devono dare per scontato che la ripresa dell'economia mondiale sia vicina»: così scriveva ieri il presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, in una lettera inviata al premier Berlusconi e ai leader che parteciperanno al summit internazionale dell'Aquila. «Il 2009 resta un anno pericoloso - si legge nella missiva -, i recenti guadagni potrebbero svanire presto e il ritmo della ripresa nel 2010 è tutt'altro che certo».

Purtroppo, ha ragione. Anche perché alcuni dati parlano chiaro: dopo aver assistito a un caso di speculazione over-the-counter spaventoso che martedì scorso ha portato il prezzo del petrolio a guadagnare tre dollari in una mattinata (quei mercati, i cosiddetti “casino”, andrebbero regolati seriamente, altro che gli hedge funds), ieri il barile è crollato a 63,85 dollari, il minimo da un mese a questa parte.

Il perché è presto spiegato: da un lato i fondamentali sono tornati a dettare legge come è giusto che sia, dall’altro la crisi in Cina dove scontri tra polizia e miliziani islamici nella provincia di Xinjiang ha portato alla morte di oltre 140 persone: se la bolletta energetica di marzo del gigante cinese parlava la lingua della crisi, questa inaspettata destabilizzazione rischia di creare danni molto seri al paese e alla sua economia, tutt’altro che sana e con tassi di crescita ben lontani da quelli millantati dal regime.

Insomma, l’unico motore di possibile ripresa a livello mondiale non solo si è inceppato ma vede alcuni meccanismi decisamente sabotati. Se alla rivolta principalmente etnica e religiosa si unirà in un combinato congiunto di malcontento anche quella dei contadini, il prezzo che Pechino sarà chiamata a pagare rischia di essere davvero pesante.

Pochi giorni fa avevamo messo in fila tutte le criticità del gigante asiatico e ora conviene ripeterle, visto che alla luce degli avvenimenti attuali e del G8 che sta per aprirsi non solo assumono significati e drammaticità nuovi, ma permettono una lettura della realtà che travalichi le versioni ufficiali.

Come anticipato, Pechino mente sulla crescita. Il dato di del 6,1% nel primo trimestre di quest’anno è semplicemente irrealistico se posto in paragone con il calo dell’utilizzo di energia elettrica del 3,2% registrato a maggio e con quello delle spedizioni navali, calate del 26% e quindi moltiplicatore della crisi dell’export. Inoltre, l’ennesima massa di prestito da 1000 miliardi di dollari emessa nel dicembre scorso sta ingolfando il sistema bancario, incapace di gestire quel quantitativo di denaro che infatti viene stoccato come reserve a Shanghai o utilizzato a scopo puramente assistenziale per mantenere artificialmente in vita il settore della costruzioni, devastato dalla crisi.

Ma non è tutto, il peggio è che la società di rating Fitch si è messa a fare le pulci alla Cina in questo periodo e il quadro che ne è uscito è stato tutt’altro che consolante. «Le future perdite subordinate allo stimolo messo in atto dalle autorità governative potrebbero presentare entità maggiori del previsto e non è affatto chiaro come i governi locali e nazionali saranno in grado di, o vorranno, intervenire». Linguaggio da agenzia di rating che si traduce però nel downgrading della Cina nell’indicatore “macro-prudential risk” da categoria 1 (sicura) a categoria 3 (dove giace, per capirci, la fallita Islanda).

Già, queste sono le previsioni. Avvalorate da un dato spaventoso presentato da Michael Pettis dell’Università di Pechino: «Se correttamente calcolato, senza maneggi politici o di propaganda, il rapporto debito/Pil della Cina sta ormai viaggiando a livelli del 50-70 per cento». Le banche, poi, non stanno meglio: l’esposizione ai debiti corporate ha toccato i 4.200 miliardi di dollari, una cifra che sale a colpi del 30% alla volta a fronte di una contrazione dei profitti del 35%. Il cosiddetto roll-over risk, il rischio legato al pagamento o alla rinegoziazione di un debito, sta salendo a dismisura. E il problema è che in molti vedevano la Cina come il motore che poteva far ripartire l’economia mondiale e, soprattutto, garantire un mercato del debito sufficiente a mantenere artificialmente in vita anche un sistema disfunzionale come quello scelto dalla Fed per deprezzare il dollaro e spalmare nei quattro continenti il debito Usa sotto forma di bond del Treasury.

Nessuno vuole ovviamente puntare il dito né tantomeno azzardare teorie complottistiche ma questo timing presocché perfetto - il grande evento internazionale, i primi scricchiolii e soprattutto la volontà di Pechino insieme a Brasile, India e Russia (il cosiddetto Bric) di sostituire il dollaro (troppo debole e instabile) con un paniere valutario misto come valuta di riferimento per le reserve mondiali - la dice lunga sulla portata storica di questo momento.

Il crollo del prezzo del petrolio, inoltre, potrebbe essere frutto di una duplice strategia studiata accuratamente a tavolino: nel mese del grande rally si sono fatti i soldi con la speculazione, ora si lascia crollare il prezzo al fine di mettere del tutto in ginocchio Mosca, la cui capacità di onorare il debito estero contratto dipende unicamente dalle revenues petrolifere: pensate che la Russia farebbe fatica ad onorare gli impegni anche se il barile toccasse quota 90 dollari, figuriamoci ora che punta al ribasso verso il tendenziale dei 60.

Due avvenimenti, due segnali proprio prima del G8: coincidenze, ovviamente. Ma che fanno ben capire come la già citata geo-finanza sia davvero la scienza economica e politica del futuro. Vedremo quali misure verranno adottate al prossimo vertice, ivi comprese quelle potenziali contro l’Iran, altro snodo del mercato petrolifero. Chi ha giocato al ribasso comincia a contare i soldi, chi aveva creduto al rally spera di chiudere la posizione il prima possibile.

I futures funzionano così, infatti, anche se qualche genio vorrebbe ora metterli fuori legge per abbassare il prezzo del petrolio: peccato che le speculazioni si fanno over-the-counter, ovvero in maniera non regolamentate né dall’Ice a Londra (e quindi dalla Fsa) né a Washington: togliere i futures regolamentati vorrebbe dire distruggere ad esempio le compagnie aeree - che li usano per comprare carburante quando il prezzo scende, volete pagare un Milano-Londra 700 euro solo andata? - e fare la gioia di chi utilizza squeezes e corners per speculare. Vedete un po’ voi…

di Mauro Bottarelli

Fonte articolo

Stop al consumo di territorio
La Casta dei giornali
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