Se c'è qualcosa che fa più male del dover assistere alla morte di 21 persone è questa insopportabile inconsapevolezza delle ragioni di questa strage.
Perché oggi 6 soldati italiani e 15 civili afghani sono morti in una città distante cinquemila chilometri da Roma?
"Agli infami, vigliacchi aggressori che hanno colpito ancora nella maniera più subdola diciamo con convinzione che non ci fermeremo", avverte il ministro della Difesa, Ignazio La Russa.
Secondo il nostro ministro uccidersi per colpire un convoglio militare e fare strage di soldati e civili è un segno di vigliaccheria.
Non un atto da rivoltosi, da terroristi, da uomini violenti privi dei più elementari principi di rispetto e di umanità, non un atto di barbarie. E' un atto da vigliacchi.
Perché, diversamente, è eroismo lanciare ordigni esplosivi dall'alto di un aereo da combattimento in volo. E' eroismo mandare al massacro decine e decine di giovani italiani da una comoda poltrona ministeriale per combattere una guerra le cui ragioni, dopo 8 anni dall'inizio del conflitto, non sono ancora chiare.
Per Schifani i nostri connazionali in Afghanistan "sono caduti per la libertà" e per "combattere il terrorismo", a difesa "della pace, della democrazia e della sicurezza internazionale". Per Karzai ed il portavoce del Vaticano, padre Federico Lombardi, stiamo combattendo "per la pace". Per Napolitano combattiamo "per la stabilità". Per D'Alema siamo impegnati "contro il terrorimo e per la pacificazione". Per Frattini lottiamo "per la libertà e per la sicurezza dell'Afghanistan, dell'Italia e dell'Europa".
Per Berlusconi difendiamo "la democrazia e la libertà" dell'Afghanistan.
Perché oggi 6 cittadini italiani hanno strappato un pezzo di cuore alle loro famiglie, ai loro amici? Perché oggi stiamo piangendo questo ennesimo insopportabile lutto?
Per la pace. Anche se l'Afghanistan è un paese vittima di questa interminabile guerra dal 2001, cioè da quando la NATO su sollecitazione degli Stati Uniti decise di attaccare militarmente il governo dei talebani. E anche se dopo 8 anni ci ritroviamo allo stesso punto di partenza. Forse anche qualche casella più indietro.
Forse non per la pace, ma perlomeno per la democrazia e la libertà in Afghanistan.
Quella democrazia fondata su un governo imposto da truppe straniere, su un governo che riesce a prolungare la propria esistenza grazie all'esercizio di poteri "mafiosi" come il commercio dell'oppio, il traffico delle armi, il voto di scambio, il broglio elettorale.
Quella libertà di cui godono oggi le donne dell'Afghanistan, le stesse donne costrette a chiedere il permesso al marito per uscire di casa o che possono essere lasciate senza cibo se non soddisfano i desideri sessuali del coniuge, secondo una recente legge approvata dal parlamento afghano.
Forse, allora, la ragione è la stessa che ci ha spinti in Iraq: combattere il terrorismo.
Eppure dei signorotti di Al Qaeda non abbiamo visto neanche l'ombra. Dei leader talebani, del Mullah Omar e di Bin Laden abbiamo giusto qualche foto d'archivio. A morire sotto le nostre bombe e le nostre raffiche di mitra sono gruppi politici ribelli e, molto più spesso, civili inermi.
Allora è chiaro, siamo andati lì per rovesciare un governo tirannico.
Una motivazione quasi plausibile, ma che se accettata ci costringerebbe seduta stante ad inviare altre migliaia di soldati in ogni angolo del globo, in ogni porzione di questo pianeta che vede governi inumani e violatori di ogni diritto umano.
E, in ragione di ciò, dovremmo anche stabilire un criterio scientifico-matematico per poter stilare una classifica dei governi anti-democratici.
Oltre a dover spiegare perché tra i banchi del parlamento e le poltrone dei ministri afghani continuiamo ad avere signori della guerra e leader del commercio mondiale dell'oppio.
O forse siamo andati lì per permettere ai nostri rappresentanti in Parlamento di sperticarsi con le più struggenti lacrime da coccodrillo, quegli stessi parlamentari che a fine luglio approvavano all'unanimità il rifinanziamento della missione a Kabul senza alcuna modifica. Gli stessi che oggi si uniscono al dolore o chiedono una exit strategy.
Una strategia d'uscita. La stessa strategia d'uscita che fino ad un anno fa era un tabù. Un anno fa chi la chiedeva era un "amico dei terroristi".
Oggi, dodici mesi dopo, un "amico dei terroristi" è qui ad esprimere il suo vero cordoglio alle famiglie dei 21 morti e a chiedere di farla finita. Di uscire da quella bolgia infernale e di riassegnare all'ONU quel potere del quale da troppo tempo viene privato. Di mettere la parola fine allo strapotere unilaterale degli eserciti e di lasciar fare le uniche organizzazioni autorizzate a derimere i conflitti.
Questo "amico dei terroristi" sta esprimendo con queste parole il suo sconforto. Il suo dolore. E, a differenza di molti altri, lo può fare con coerenza.
Lettura correlata: Una guerra a scoppio ritardato
Perché oggi 6 soldati italiani e 15 civili afghani sono morti in una città distante cinquemila chilometri da Roma?
"Agli infami, vigliacchi aggressori che hanno colpito ancora nella maniera più subdola diciamo con convinzione che non ci fermeremo", avverte il ministro della Difesa, Ignazio La Russa.
Secondo il nostro ministro uccidersi per colpire un convoglio militare e fare strage di soldati e civili è un segno di vigliaccheria.
Non un atto da rivoltosi, da terroristi, da uomini violenti privi dei più elementari principi di rispetto e di umanità, non un atto di barbarie. E' un atto da vigliacchi.
Perché, diversamente, è eroismo lanciare ordigni esplosivi dall'alto di un aereo da combattimento in volo. E' eroismo mandare al massacro decine e decine di giovani italiani da una comoda poltrona ministeriale per combattere una guerra le cui ragioni, dopo 8 anni dall'inizio del conflitto, non sono ancora chiare.
Per Schifani i nostri connazionali in Afghanistan "sono caduti per la libertà" e per "combattere il terrorismo", a difesa "della pace, della democrazia e della sicurezza internazionale". Per Karzai ed il portavoce del Vaticano, padre Federico Lombardi, stiamo combattendo "per la pace". Per Napolitano combattiamo "per la stabilità". Per D'Alema siamo impegnati "contro il terrorimo e per la pacificazione". Per Frattini lottiamo "per la libertà e per la sicurezza dell'Afghanistan, dell'Italia e dell'Europa".
Per Berlusconi difendiamo "la democrazia e la libertà" dell'Afghanistan.
Perché oggi 6 cittadini italiani hanno strappato un pezzo di cuore alle loro famiglie, ai loro amici? Perché oggi stiamo piangendo questo ennesimo insopportabile lutto?
Per la pace. Anche se l'Afghanistan è un paese vittima di questa interminabile guerra dal 2001, cioè da quando la NATO su sollecitazione degli Stati Uniti decise di attaccare militarmente il governo dei talebani. E anche se dopo 8 anni ci ritroviamo allo stesso punto di partenza. Forse anche qualche casella più indietro.
Forse non per la pace, ma perlomeno per la democrazia e la libertà in Afghanistan.
Quella democrazia fondata su un governo imposto da truppe straniere, su un governo che riesce a prolungare la propria esistenza grazie all'esercizio di poteri "mafiosi" come il commercio dell'oppio, il traffico delle armi, il voto di scambio, il broglio elettorale.
Quella libertà di cui godono oggi le donne dell'Afghanistan, le stesse donne costrette a chiedere il permesso al marito per uscire di casa o che possono essere lasciate senza cibo se non soddisfano i desideri sessuali del coniuge, secondo una recente legge approvata dal parlamento afghano.
Forse, allora, la ragione è la stessa che ci ha spinti in Iraq: combattere il terrorismo.
Eppure dei signorotti di Al Qaeda non abbiamo visto neanche l'ombra. Dei leader talebani, del Mullah Omar e di Bin Laden abbiamo giusto qualche foto d'archivio. A morire sotto le nostre bombe e le nostre raffiche di mitra sono gruppi politici ribelli e, molto più spesso, civili inermi.
Allora è chiaro, siamo andati lì per rovesciare un governo tirannico.
Una motivazione quasi plausibile, ma che se accettata ci costringerebbe seduta stante ad inviare altre migliaia di soldati in ogni angolo del globo, in ogni porzione di questo pianeta che vede governi inumani e violatori di ogni diritto umano.
E, in ragione di ciò, dovremmo anche stabilire un criterio scientifico-matematico per poter stilare una classifica dei governi anti-democratici.
Oltre a dover spiegare perché tra i banchi del parlamento e le poltrone dei ministri afghani continuiamo ad avere signori della guerra e leader del commercio mondiale dell'oppio.
O forse siamo andati lì per permettere ai nostri rappresentanti in Parlamento di sperticarsi con le più struggenti lacrime da coccodrillo, quegli stessi parlamentari che a fine luglio approvavano all'unanimità il rifinanziamento della missione a Kabul senza alcuna modifica. Gli stessi che oggi si uniscono al dolore o chiedono una exit strategy.
Una strategia d'uscita. La stessa strategia d'uscita che fino ad un anno fa era un tabù. Un anno fa chi la chiedeva era un "amico dei terroristi".
Oggi, dodici mesi dopo, un "amico dei terroristi" è qui ad esprimere il suo vero cordoglio alle famiglie dei 21 morti e a chiedere di farla finita. Di uscire da quella bolgia infernale e di riassegnare all'ONU quel potere del quale da troppo tempo viene privato. Di mettere la parola fine allo strapotere unilaterale degli eserciti e di lasciar fare le uniche organizzazioni autorizzate a derimere i conflitti.
Questo "amico dei terroristi" sta esprimendo con queste parole il suo sconforto. Il suo dolore. E, a differenza di molti altri, lo può fare con coerenza.
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Fonte articolo
Sono totalmente d'accordo con te.
RispondiElimina(anche su "disparità di trattamento")
Stamattina, quando ho scritto un post simile sul mio blog, credevo di essere solo. Invece ho scoperto che siamo tanti, e questo dovrebbe imporre una riflessione.
In primis a noi.
E' confortante spegnere Raiuno per un secondo, e leggere cosa scrive la massa dei blogger, di cui faccio da poco, orgogliosamente, parte. In assenza di retorica e di interessi da difendere, possiamo guardare alla realtà, per l'appunto, senza filtri.
Per cui teniamo duro e teniamoci in contatto, per il nostro bene.