24/11/09

C’era una volta l’America

netdebt

(Via Paul Krugman’s blog)

C’erano una volta gli Stati Uniti d’America, unica superpotenza militare, e prima potenza economica mondiale. C’erano per davvero quegli Stati Uniti lì. E ci sono stati a lungo. Per quasi un secolo - il Novecento - che non a caso è stato ribattezzato dagli storici il “secolo americano”. Ma ora non ci sono più. Anche se alcuni cittadini a stelle e strisce di quelli “doc” faticano proprio a raccappezzarsi. E a rendersene conto.

L’economista Paul Krugman, per esempio.

Un premio Nobel per l’economia da esibire sulla mensola del caminetto. Una cattedra prestigiosa all’università di Princeton. E un bel contratto da editorialista per il New York Times. Insomma: un signor intellettuale con un bel pedigree da animale accademico. E che ti combina? Pur di sostenere che gli States - per restare “i numeri uno” - devono spendere e spandere fiumi di soldi pubblici per stimolare un’economia in stato comatoso; dicevamo: per sostenere questa sua ricettina facile facile, ti verga un post sul suo blog. E dice: signori e signore, siete preoccupati che il debito pubblico cresca troppo? Non dovete. Perchè se Paesi come Belgio e Italia riescono a gestire un debito pubblico sterminato, chiunque ce la può fare. O meglio, Krugman la mette giù esattamente così:

La gente si chiede: “Perchè dovremmo paragonarci con Belgio e Italia? Quei due Paesi sono un casino”. Uhm, ragazzi, questo è il punto. Il Belgio è politicamente debole, perchè diviso linguisticamente. L’Italia è politicamente debole, perchè è l’Italia. E se questi Paesi possono gestire il loro debito che è oltre il 100% del Pil (…), so can we (tradotto: anche noi possiamo).

E chi scrive non sa bene il perchè. Ma ogni volta che rilegge queste righe, non può fare a meno di immaginare il premio Nobel che finisce di scrivere. Si leva un cappellone da cowboy per massaggiarsi la testa. E si fa una grassa risata a bocca spalancata. Stile pistolero che ride alle sue battute in un film western di serie “Z”, diciamo.

Ma torniamo alle parole di Krugman. E alla realtà. Che oggi come oggi - a differenza della saga della conquista dell’Ovest - ha ben poco di epico.

Non vale la pena soffermarsi sull’assunto che se Belgio e Italia possono gestire enormi debiti pubblici, allora per gli Stati Uniti affrontare un problema così sarebbe un gioco da ragazzi. Se non per dire che si tratta di un assunto, non di un ragionamento, perchè non ha basi. Non uno straccio di numero. Non un abbozzo di modello econometrico. Ma - come dicevo - lasciamo perdere. No, quello che mi interessa è la frase: “L’Italia è politicamente debole, perchè è l’Italia”. Che - lo confesso - mi ha smosso qualcosa dentro.

Ecco. Qualcuno potrebbe ricordare che la gran parte del debito pubblico italiano è stata accumulata negli anni Ottanta. Che è stata fatta da una classe dirigente poi accusata, processata e (spesso e volentieri) condannata per corruzione. E che quella classe dirigente scandalosa - il fu Pentapartito (Diccì, Prì, Plì, Psdì e gli indimenticati e indimenticabili socialisti) - è rimasta per decenni incollata alle poltrone che contavano, causa guerra fredda. E una strana forma di democrazia che lo storico Guido Crainz ha definito democrazia “congelata”. Tutto questo per dire che forse gli Stati Uniti - e gli amici-nemici della Russia allora comunista - del “casino” politico italiano ne sapevano e ne sanno qualcosa. Ma non perdiamoci in ricostruzioni storiche complicate, dolorose e discutibili. Perchè il punto è un altro. Il punto è che dire che “l’Italia è politicamente debole, perchè è l’Italia” è come dire che i “tedeschi sono precisi perchè sono tedeschi”. Che “i francesi sanno cucinare perchè sono francesi”. E che, la sai l’ultima?, “c’erano un tedesco, un francese e un italiano…”. Un giudizio poco da premio Nobel e poco accademico, insomma. Che invece sa molto di luogo comune. E soprattutto di una buona dose di spocchia.

Spocchia che - per una infinita serie di ragioni - non ha più alcuna ragion d’essere.

Gli Stati Uniti - oggi come oggi - sono impantanati in due guerre fallimentari che non riescono a vincere (Iraq e soprattutto Afghanistan). Hanno un tasso di disoccupazione al 10 e passa per cento. Un tasso di sottoccupazione (dato dalla somma di disoccupati; persone costrette a lavorare part time perchè non trovano niente di meglio; e altri che il lavoro non lo cercano manco più) al 17,5%. E come se non bastasse: più di dieci milioni di famiglie hanno perso o rischiano di perdere casa. E ci sono intere aree del Paese - come Detroit, l’ex capitale dell’auto - che pullulano di case disabitate e quartieri fantasma come neanche in “The day after”. E poi sì: il debito pubblico sta esplodendo come neppure in Belgio e in Italia. E viaggia - secondo le stime del Fondo monetario internazionale - verso il 100% del Prodotto interno lordo. Tanto che non il corrierino dei piccoli, ma proprio il giornale su cui scrive Krugman, cioè il “New York Times” - giusto ieri - si chiedeva come faranno mai gli Usa a pagare gli interessi. Che di qui a una decina d’anni potrebbero ammontare, secondo i numeri citati dal “New York Times”, a 700 miliardi di dollari all’anno. Ovvero più di quanto l’attuale amministrazione Obama spenda per educazione, energia, polizia e guerre in Iraq e Afghanistan, messe insieme.

Un bel punto interrogativo, non c’è che dire. Cui Krugman ha risposto in perfetto stile Obama: “Yes, we can”. Ovvero: con una botta di ottimismo su cui sarebbe lecito nutrire più di qualche dubbio. Sia come sia. Una cosa è certa: i luoghi comuni e i (pre)giudizi se li poteva e doveva evitare. Perchè dal basso del baratro dove è sprofondato il suo di Paese, non si possono più tranciare giudizi da primi della classe. Accademici e tanto meno non accademici.

Certo. E’ dura accettarlo. Ma sicuramente anche il premio nobel Paul Krugman - se volesse fare lo sforzo di mollare per un paio di giorni gli amati libri; si facesse un giro a Detroit; e vedesse che lì non hanno più i soldi manco per seppelire i morti - se ne farebbe una ragione.

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