Il presidente di Mediobanca pronto a prendere la guida di Generali. Storie di potere e di guai con la giustizia.
Il "Sistema Geronzi" è a una svolta. Il banchiere romano che è passato indenne dalla Prima alla Seconda Repubblica, accrescendo il suo potere fino a occupare in Mediobanca la scrivania che fu di Enrico Cuccia, ora potrebbe traslocare da Milano a Trieste, salendo al vertice delle Generali al posto di Antoine Bernheim. È da tempo che la voce si ripete nel telefono senza fili della finanza. C’è chi spiega il possibile trasloco come la mossa di una partita a scacchi: meglio lasciare volontariamente la poltrona di comando di una banca, prima di essere costretto a farlo a causa di una legge bancaria severa con chi ha problemi giudiziari. E Cesare Geronzi di problemi giudiziari ne ha tanti.
È rimasto impigliato nel caso Federconsorzi, il colosso agricolo della Prima Repubblica crollato sotto il peso di 4 mila miliardi di debiti. Il suo patrimonio fu venduto, all’inizio degli anni Novanta, per 2.150 miliardi, ma ne valeva almeno 4.800, secondo la magistratura che aprì un’inchiesta. La regia dell’operazione era degli uomini che stavano facendo nascere allora il gruppo della Banca di Roma. Geronzi era tra questi. Dopo essersi fatto le ossa alla Banca d’Italia, diventa direttore generale della Cassa di Risparmio di Roma, piccolo istituto devoto a Santa Madre Chiesa. In un paio d’anni rileva dall’Iri prima il Banco di Santo Spirito e poi il Banco di Roma. Sono gli anni in cui si dice che la Dc, anzi più precisamente Giulio Andreotti, sia il referente politico di un modo di fare banca in cui le relazioni e la politica contano ben più che i bilanci e il mercato. Nel ventre molle della Roma democristiana, le banche servono, più che a fare finanza, a mettere insieme amici fidati e a far loro realizzare operazioni sicure. E a finanziare i partiti e i loro giornali, con una mano a destra e un’altra a sinistra.
Per la vendita (o svendita) del patrimonio Federconsorzi, Cesare Geronzi, diventato intanto presidente della Banca di Roma, è comunque prosciolto: nel 2000, "per non aver commesso il fatto". Già in quel caso aveva accanto Sergio Cragnotti, presidente della Cirio e della Lazio. I due sono cresciuti insieme, tra gli anni Ottanta e i Novanta, Cesare sprofondato negli insondabili divani della Roma che governa, Sergio ben sistemato nella finanza della Milano che paga (era in Montedison). Poi Sergio ha spiccato il volo con Cirio e Cesare non si è mai dimenticato di lui. Quando arriva il crac, anche il banchiere viene coinvolto: le sue banche romane sono diventate Capitalia, ma Capitalia ha collocato con estrema leggerezza – almeno secondo i risparmiatori truffati – i bond di una Cirio in crisi da tempo. Lo stabilirà il processo.
Intanto altri guai arrivano da un altro amico, il romanissimo e fascistissimo Giuseppe Ciarrapico, tanto vicino al "Divo" Andreotti, dunque da sostenere. Fin troppo: è con i finanziamenti di Geronzi che Ciarrapico in pochi anni mette insieme un suo gruppo, Italfin 80, comprando cliniche e acque minerali. I conti? Non buoni, tanto che arriva anche per il Ciarra il momento del crac. Dei 450 miliardi di lire dell’insolvenza, 300 vengono dall’istituto di Geronzi. Ma dal male nasce il bene, perché il Ciarra presenta al banchiere un imprenditore milanese in quel momento un po’ in difficoltà, ma con un grande futuro. È Silvio Berlusconi, che a metà degli anni Novanta nuota in un mare di debiti, tanto che le banche fanno fatica a credere nel futuro del Biscione.
Niente paura, Banca di Roma crede in Fininvest, che, anche grazie ai crediti di Geronzi, nel 1996 riesce a far quotare in Borsa Mediaset: un successo, per Berlusconi una svolta. Gli amici, poi, non si dimenticano. Che importa che sulla strada ci siano degli intralci? Per il crac Italcase, Geronzi viene condannato in primo grado, ma assolto in appello: "Per non aver commesso il fatto".
Dentro il crac Parmalat, è indagato, nel processo in corso a Parma, per usura aggravata e concorso in bancarotta fraudolenta: secondo l’accusa, avrebbe costretto Calisto Tanzi, che già aveva tanti problemi, a comprare (finanziato a tassi da usura) la Ciappazzi, società dell’amico Ciarrapico. E poi a comprare anche (a prezzi gonfiati) la Eurolat dell’altro amico, Cragnotti: questo processo viene trasferito da Parma a Roma perché nella Capitale si sarebbe consumato il reato più grave, l’estorsione.
Geronzi intanto ha realizzato il suo capolavoro, conferire la sua Capitalia all’Unicredit di Alessandro Profumo, lasciandogli la gestione ma pretendendo, malgrado il curriculum penale, la presidenza di Mediobanca. Ha spiccato il volo da Roma a Milano. Se ora lascerà davvero Piazzetta Cuccia per Trieste, state certi che non è solo per paura dei giudici: non ha molto da temere, tra prescrizioni già incombenti e processi brevi in arrivo. Il banchiere romano che ha conquistato Milano lavora per nuovi equilibri, sa che Mediobanca non è più da tempo il centro del sistema e che Generali, seconda compagnia assicurativa europea, è un’ottima plancia di comando da cui assistere, e partecipare, alle grandi manovre dei prossimi anni.
da il Fatto Quotidiano del 2 febbraio
Il "Sistema Geronzi" è a una svolta. Il banchiere romano che è passato indenne dalla Prima alla Seconda Repubblica, accrescendo il suo potere fino a occupare in Mediobanca la scrivania che fu di Enrico Cuccia, ora potrebbe traslocare da Milano a Trieste, salendo al vertice delle Generali al posto di Antoine Bernheim. È da tempo che la voce si ripete nel telefono senza fili della finanza. C’è chi spiega il possibile trasloco come la mossa di una partita a scacchi: meglio lasciare volontariamente la poltrona di comando di una banca, prima di essere costretto a farlo a causa di una legge bancaria severa con chi ha problemi giudiziari. E Cesare Geronzi di problemi giudiziari ne ha tanti.
È rimasto impigliato nel caso Federconsorzi, il colosso agricolo della Prima Repubblica crollato sotto il peso di 4 mila miliardi di debiti. Il suo patrimonio fu venduto, all’inizio degli anni Novanta, per 2.150 miliardi, ma ne valeva almeno 4.800, secondo la magistratura che aprì un’inchiesta. La regia dell’operazione era degli uomini che stavano facendo nascere allora il gruppo della Banca di Roma. Geronzi era tra questi. Dopo essersi fatto le ossa alla Banca d’Italia, diventa direttore generale della Cassa di Risparmio di Roma, piccolo istituto devoto a Santa Madre Chiesa. In un paio d’anni rileva dall’Iri prima il Banco di Santo Spirito e poi il Banco di Roma. Sono gli anni in cui si dice che la Dc, anzi più precisamente Giulio Andreotti, sia il referente politico di un modo di fare banca in cui le relazioni e la politica contano ben più che i bilanci e il mercato. Nel ventre molle della Roma democristiana, le banche servono, più che a fare finanza, a mettere insieme amici fidati e a far loro realizzare operazioni sicure. E a finanziare i partiti e i loro giornali, con una mano a destra e un’altra a sinistra.
Per la vendita (o svendita) del patrimonio Federconsorzi, Cesare Geronzi, diventato intanto presidente della Banca di Roma, è comunque prosciolto: nel 2000, "per non aver commesso il fatto". Già in quel caso aveva accanto Sergio Cragnotti, presidente della Cirio e della Lazio. I due sono cresciuti insieme, tra gli anni Ottanta e i Novanta, Cesare sprofondato negli insondabili divani della Roma che governa, Sergio ben sistemato nella finanza della Milano che paga (era in Montedison). Poi Sergio ha spiccato il volo con Cirio e Cesare non si è mai dimenticato di lui. Quando arriva il crac, anche il banchiere viene coinvolto: le sue banche romane sono diventate Capitalia, ma Capitalia ha collocato con estrema leggerezza – almeno secondo i risparmiatori truffati – i bond di una Cirio in crisi da tempo. Lo stabilirà il processo.
Intanto altri guai arrivano da un altro amico, il romanissimo e fascistissimo Giuseppe Ciarrapico, tanto vicino al "Divo" Andreotti, dunque da sostenere. Fin troppo: è con i finanziamenti di Geronzi che Ciarrapico in pochi anni mette insieme un suo gruppo, Italfin 80, comprando cliniche e acque minerali. I conti? Non buoni, tanto che arriva anche per il Ciarra il momento del crac. Dei 450 miliardi di lire dell’insolvenza, 300 vengono dall’istituto di Geronzi. Ma dal male nasce il bene, perché il Ciarra presenta al banchiere un imprenditore milanese in quel momento un po’ in difficoltà, ma con un grande futuro. È Silvio Berlusconi, che a metà degli anni Novanta nuota in un mare di debiti, tanto che le banche fanno fatica a credere nel futuro del Biscione.
Niente paura, Banca di Roma crede in Fininvest, che, anche grazie ai crediti di Geronzi, nel 1996 riesce a far quotare in Borsa Mediaset: un successo, per Berlusconi una svolta. Gli amici, poi, non si dimenticano. Che importa che sulla strada ci siano degli intralci? Per il crac Italcase, Geronzi viene condannato in primo grado, ma assolto in appello: "Per non aver commesso il fatto".
Dentro il crac Parmalat, è indagato, nel processo in corso a Parma, per usura aggravata e concorso in bancarotta fraudolenta: secondo l’accusa, avrebbe costretto Calisto Tanzi, che già aveva tanti problemi, a comprare (finanziato a tassi da usura) la Ciappazzi, società dell’amico Ciarrapico. E poi a comprare anche (a prezzi gonfiati) la Eurolat dell’altro amico, Cragnotti: questo processo viene trasferito da Parma a Roma perché nella Capitale si sarebbe consumato il reato più grave, l’estorsione.
Geronzi intanto ha realizzato il suo capolavoro, conferire la sua Capitalia all’Unicredit di Alessandro Profumo, lasciandogli la gestione ma pretendendo, malgrado il curriculum penale, la presidenza di Mediobanca. Ha spiccato il volo da Roma a Milano. Se ora lascerà davvero Piazzetta Cuccia per Trieste, state certi che non è solo per paura dei giudici: non ha molto da temere, tra prescrizioni già incombenti e processi brevi in arrivo. Il banchiere romano che ha conquistato Milano lavora per nuovi equilibri, sa che Mediobanca non è più da tempo il centro del sistema e che Generali, seconda compagnia assicurativa europea, è un’ottima plancia di comando da cui assistere, e partecipare, alle grandi manovre dei prossimi anni.
da il Fatto Quotidiano del 2 febbraio
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