16/04/10

Pianto greco


“Finiremo come la Grecia?”. Se lo è chiesto - dalle pagine del suo quotidiano - perfino il direttore de “Il Sole 24 ore”, Gianni Riotta. Un dubbio poco amletico - cioè poco nobile ed esistenziale. Ma che - tant’è - c’è, e ha preso piede perfino sulla stampa che conta.

E la cosa dovrebbe dare - e molto; ma molto molto - da pensare.

Dovrebbe dare da pensare, si diceva. Perché non una vita fa, ma nel 2007, sempre le balde penne della stampa che conta si chiedevano esattamente il contrario. Ovvero: che manca all’Italia per essere come la Grecia? Atene, infatti, viaggiava con il vento in poppa. Il suo Prodotto interno lordo cresceva con la vigoria dei fiori a primavera (più 4% all’anno, secondo il World Factbook, per 4 anni filati: dal 2003 al 2007). E con il Pil, cresceva pure la ricchezza delle famiglie. Tanto per non farsi mancare niente: nel 2007 i greci, per ricchezza pro capite, stavano per superare pure il Belpaese. Risultato: sulla stampa tricolore era tutto un elogio. Anzi, tutto un peana.

Per dire: Federico Fubini, giornalista del “Corriere della Sera” - nell’anno di grazia 2007; in un articolo intitolato giustamente “L’energia della Grecia” - dopo aver elencato numeri e dati del miracolo greco, concludeva con toni vagamente epici: “La Grecia esce da vincente a sorpresa dall’integrazione europea e dalla globalizzazione”; l’Italia, no.

Ullalah.

Addirittura? Addirittura. Peccato solo che i fatti ci abbiano poi raccontato tutta un’altra storia.

Perchè ora Atene - quella che era uscita “vincente dall’integrazione europea e dalla globalizzazione” - viaggia sull’orlo del default. Perché l’Unione europea e il Fondo monetario internazionale hanno dovuto mettere sul piatto qualche decina di miliardi di euro per cercare di salvarla, e solo per cominciare. Perchè anche il governo greco ha dovuto fare la sua parte sforbiciando qua e là la spesa pubblica e aumentando pure le tasse. E perché - infine - secondo qualcuno, potrebbe anche non bastare.

Il “Financial Times” è stato categorico: non quest’anno - ha scritto uno dei più conosciuti editorialisti del quotidiano britannico - ma la Grecia con tutta probabilità è destinata al fallimento. Con buona pace dei peana e degli elogi che fioccavano ai tempi belli.

Ebbene.

Domanda: com’è possibile che la Grecia - in meno di 3 anni - sia passata da tigre del Mediterraneo a incarnazione di tutte le italiche paure? Cos’è cambiato in così poco tempo?

Risposta: assolutamente, niente.

Atene non è mai stata un modello da imitare. E’ sempre stata un modello da evitare.

Sempre nel 2007 - quando il Corriere descriveva la Grecia come il Pease delle meraviglie - proprio il “Financial Times” dava ben altre notizie e con toni meno allegri: Atene aveva un deficit delle partite correnti pari al 14% del suo Prodotto interno lordo. Tradotto in parole povere: importava un sacco e esportava poco. Anzi, troppo poco. Tanto che - questo scriveva, appunto, il Financial Times - la Banca centrale europea aveva invitato, con una certa urgenza, i greci a metterci una pezza. Il deficit delle partite correnti, infatti, non solo era alto; rischiava proprio, parola della Banca centrale europea, di diventare “insostenibile”.

Le preoccupazioni della Banca centrale europea, in effetti, erano più che fondate. La situazione aveva preso a precipitare a partire dall’ingresso nell’euro. Dal 2002 al 2008 - dati Eurosat alla mano- il deficit tra import ed export con la Germania era passato da 2,887 miliardi di euro a 5,337 miliardi euro. Cioè: quasi raddoppiato. Ma i rapporti commerciali andavano male - o bene, dipende dai punti di vista - con quasi tutti gli altri Paesi europei e pure extraeuropei. Anche il saldo negativo con l’Italia - cui secondo il Corriere mancava “l’energia greca” - si era decisamente allargato: da 2,8 miliardi di euro (2002) a 4,9 miliardi di euro (2008). E - addirittura - il deficit commerciale con la Cina si era moltiplicato per 6.

Per farla breve e per citare sempre i dati che avevano allarmato la Bce: il deficit delle partite correnti - negli ultimi dieci anni - si era complessivamente moltiplicato per due. Cioè - e graficamente - le cose erano andate così:

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Per carità. Dinamiche simili - dopo l’introduzione dell’euro - si erano viste anche in Spagna:

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E in Portogallo:

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Ma mal comune, quando si tratta di quattrini, non fa mezzo gaudio. E il problema, appunto, era sfortunatamente comune a tutti quei Paesi che gli inglesi - spesso e volentieri anche dalle pagine del Financial Times - chiamano, con altezzosità tutta britannica, “Club Med”. Dove si produceva poco e si importava molto. Ma - guardacaso - con una eccezione: l’Italia.

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Ah, a proposito. Italia eslclusa, ma inglesi invece inclusi. Il deficit commerciale della Gran Bretagna - sempre dati Eurostat alla mano - infatti negli anni Duemila ha seguito una traiettoria alla Greca. Anche se ora a Londra e dintorni, si è capito che qualcosa non è tornato. E si sta cercando di cambiare rotta.

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Ma torniamo ad Atene. Dirà qualcuno di voi: sì vabbè, la Grecia ha importato molto e non ha esportato un tubo, e quindi? E quindi - e molto all’ingrosso - si può dire che ’sta differenza - quella tra import ed export - va pagata. Si deve, cioè, trovare la ricchezza per regolare i propri conti con gli altri Paesi. Diversamente - e come ovvio - qualunque Stato potrebbe mettersi a panza all’aria, aspettando che siano gli altri a produrre beni e servizi.

Ecco: dove ha trovato i soldi la Grecia (ma anche il Portogallo, la Spagna e eccetera)? In teoria, magari è difficile rispondere. Ma in pratica - visto che i danari si sono effettivamente trovati e spesi - una risposta ci deve essere. E secondo Alessandro Penati, professore di Finanza aziendale alla Cattolica di Milano, la spiegazione sarebbe anche molto semplice.

Penati, infatti - in un editoriale per “Repubblica” - ha scritto nero su bianco che le cose sono andate più o meno così:

La Germania ha voluto la moneta unica per sostenere l’ espansione della propria industria in un mercato vastissimo, sottraendo ai paesi confinanti l’arma della svalutazione competitiva. Per i paesi a minor competitività, il finanziamento dei disavanzi della bilancia dei pagamenti non sarebbe più stato un problema: avrebbero pagato l’ export tedesco vendendo ai tedeschi il proprio debito. E per evitare abusi, la Germania ha voluto il tetto del 3% ai deficit pubblici. Così, dall’ avvio dell’ euro, i tedeschi hanno accumulato complessivamente un avanzo delle partite correnti da 1.200 miliardi di dollari; dal 2006, il 6,5% del Pil in media ogni anno. Non è la Cina (8,5% di avanzo medio e 2.500 miliardi) ma poco manca. I disavanzi crescenti degli altri paesi di Eurolandia ne sono l’ immagine speculare. Come gli Usa per la Cina. (…). E una buona fetta del debito pubblico di questi Paesi è nelle tasche dei tedeschi.

Insomma, secondo Penati: la Germania (e non solo la Germania) ha prestato alla Grecia (e non solo alla Grecia) i soldi per comprare tante macchine Volkswagen e mangiare tanti wurstell rigorosamente made in Germany.

Vero? Beh, si tratta di una sintesi un po’ tagliata con il coltello. Ma sta di fatto che - punto primo - secondo il Wall Street Journal, le banche di Francia e Germania - le due principali economie dell’area euro - sono esposte con la Grecia per 119 miliardi di dollari (vale a dire: quasi un terzo del valore dell’intero Pil greco, che - nel 2009, secondo il World Factbook - era di 341 miliardi di dollari). E sta di fatto che - punto secondo - in base agli ultimi dati rielaborati e pubblicati da “Repubblica”, ben oltre l’80% del debito pubblico greco è in mani straniere.

Parafrasando un vecchio adagio: prima un’orgia di acquisti e poi la beffa del crac.

Qualcuno si è preso anche la briga di soffiare sul fuoco del risentimento greco. E’ stato il solito “Financial Times”, bibbia della Alta finanza anglosassone. Che da settimane non fa che scrivere che il vero problema dell’Unione è una Germania che esporta troppo e consuma troppo poco. Del resto: lo scorno britannico è comprensibile: il disavanzo commerciale - tra Germania e Gran Bretagna - è passato dai 9,1 miliardi di euro del 2002 a 20,2 miliardi del 2008. Il doppio. Come in Grecia.

Ma il gioco - va detto - è stato bello, finchè è durato. Atene per anni ha preso, di fatto, a prestito un mucchio di soldi che non aveva. E ha fatto girare la sua economia a mille. Poi l’imprevisto: come ha scritto sempre Penati e sempre su “Repubblica”: “La Germania non aveva previsto uno shock che colpisse le finanze di tutti i paesi e mettesse in crisi il suo modello”. Però quello shock - la peggiore crisi economica dal 1929 ad oggi - è arrivato. E il party greco è finito. Come è finito - anche se in modi e dimensioni diverse - quello spagnolo. Quello portoghese. E pure quello britannico. E l’intera Europa, ora, deve trovare la pezza.

E l’Italia?

L’Italia - anche senza la decantata “energia greca” - ha, sì, patito moltissimo nei confronti dei Paesi extra Ue (in particolare il deficit commerciale con la Cina è balzato dai 4,2 miliardi di euro del 2002 agli oltre 17 miliardi di euro del 2008). Ma ha saputo tenere botta in Europa. E ha contenuto il deficit delle partite correnti, secondo i calcoli della Banca d’Italia, tra i 40 e i 50 miliardi di euro. Vale a dire: attorno al 3% del Pil. Per capirci: molto meglio di Grecia, Spagna e Portogallo che viaggiavano e viaggiano sulla doppia cifra.

Numeri che significano che sì, il Belpaese, negli ultimi anni ha perso competitività sui mercati internazionali (il famoso “declino” di cui parla da anni e una nutrita pattuglia di economisti). Ma senza drammi da tragedia greca.

E - difatti - il suo debito pubblico è saldamente in mani italiane. Anzi: in base gli ultimissimi calcoli di “Repubblica” (su dati di Banca d’Italia), circa il 55,7% dei titoli di Stato tricolore sta proprio in Italia. Anzi sempre secondo i calcoli di “Repubblica” - visto che altri 500 miliardi di titoli “esteri” è sempre e comunque detenuto da banche , istituti finanziarie o cittadini tricolori - si può dire che solo il 20% dei nostri debiti sono effettivamente accasati all’estero. Esattamente il contrario della Grecia.

Insomma: si potrebbe dire che non si capisce a che serva ’sto benedetto paragone con Atene.

Ma in realtà non è così. Il paragone - forse - è servito a Confindustria. Che possiede “Il Sole 24 ore”. E che per bocca della sua presidente, Emma Marcegaglia ha chiesto al governo di mettere mano al portafoglio e cacciare miliardi su miliardi per “le infrastrutture” e quant’altro. Pena, appunto, il dramma. O - come Riotta dixit - per non fare la fine della Grecia. Così come agitare lo spettro della Grecia forse è servito - negli ultimi mesi - a certi Tartufi” della cosiddetta Sinistra italiana. Che - da sempre - accusano Berlusconi di tutti i mali del mondo, eventuale default compreso. Come se il nostro ragguardevole debito pubblico - che a fine anno dovrebbe arrivare al 117% del Pil - non fosse il frutto di almeno trent’anni di gestione allegra e sciagurata delle nostre Finanze. Con la complicità di tutti. Cittadini - dai baby pensionati agli evasori fiscali - assolutamente compresi.

Sicuramente, però, menare il can per l’aia di una crisi alla greca non serve all’Italia. Che di problemi ne ha già un sacco e una sporta di suoi. In primis: il rischio concreto - causa la concorrenza delle vere economie emergenti, Cina in testa - di diventare un Paese sempre più povero e sempre più marginale. E prima o poi, sarebbe anche bene parlarne, invece di fare il solito pianto greco. E di chiagnere, sì. Ma per fottere.

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