E infatti.
Quattro settimane fa, mi ero permesso di scrivere un post sui tagli all’università italiana. E - colpa in Italia assai grave - avevo addirittura osato uscire dal solito coretto orchestrato dagli opinionisti a tassametro del centrodestra e dai maître-à-non-penser del centrosinistra. Per capirci: invece di dire che “tutto andava bene anzi benone” (versione berluscones); o che la colpa di tutto è del solito principe-del-male-Berlusconi (versione antiberluscones); insomma: invece di ripetere i soliti mantra tanto amati da schiere di miei concittadini acefali, avevo cercato di allargare un po’ il discorso.
Sinteticamente: mi ero addirittura concesso il lusso di ricordare che tagli a ricerca e università stavano andando in scena anche in Gran Bretagna (e pure in Irlanda e Spagna e Grecia). Che il problema era europeo e non italiano. E che andava affrontato e non negato. In aggiunta, avevo pure criticato l’europarlamentare piddina, Debora Serracchiani e i tanti altri sinistrati del centrosinistra che - di fronte a qualunque guaio del Belpaese (dalle mezze stagioni che non ci sono più ai tagli all’istruzione, appunto) - non sanno far altro che dar fiato al solito ritornello: l’Italia è messa peggio del Burundi e la causa prima e unica è il solito Cavaliere di Arcore.
Risultato: apriti cielo. Una sfilza di commenti al vetriolo stile “tu becero nemico del popolo”; “giù le mani dall’università” e “non sai cosa stai dicendo”. Provenienza: evidentemente i discepoli dei maitre-à-non-penser del centrosinistra di cui sopra. Perla delle perle: un baluba, con tono strafottente, si era perfino peritato di postarmi un link del “Sole 24 ore” per dimostrarmi che i tagli all’università inglese erano solo un parto della mia fantasia.
Incerti del “mestiere” di blogger (e mestiere si fa per dire, visto che non ci si guadagna una lira). Unica consolazione: a smentire le idiozie vomitate dai mass media e prontamente riprese da schiere di non pensanti, ci pensa, di norma, la realtà. Che questa settimana ha deciso di far sentire la sua voce e di riportare tutti con i piedi ben per terra.
Mercoledì scorso - infatti - circa 50mila studenti universitari inglesi sono scesi in piazza a Londra. Per protestare - ovvio - contro i tagli. Quei tagli - ari-ovvio - che mi ero inventato io.
Esauriti preamboli e sfoghi, vado al sodo. Perchè - a modestissimo parere di chi scrive - sulle ragioni di questa manifestazione c’è molto da dire.
A spingere gli studenti del Regno Unito in piazza è stato un colpo di scure colossale. Come riportato dai principali giornali del Regno Unito, infatti, il governo ha deciso di tagliare i fondi per pagare gli insegnanti delle università del 40% (quarantapercento). Risultato: gli atenei dovranno aumentare le tasse pagate dagli studenti. Ovvero: se prima andare all’università costava - al massimo - 3.000 e rotte sterline all’anno, adesso (o meglio dal 2012), si potrà arrivare a pagare fino a 9.000 sterline, sempre ogni dodici mesi. Il 200% in più (duecentopercento).
Il sindacato degli studenti inglesi (University college union) - secondo il quotidiano britannico “The Guardian” - ha calcolato che negli ultimi vent’anni i costi di iscrizione sono addirittura triplicati (ad inizio anni Novanta, le tasse universitarie erano pari a solo 1.500 e rotte sterline), e ha definito questi aumenti inacettabili. Il governo non ha indietreggiato di un millimetro e ha replicato che tanto le università offriranno borse di studio ai più poverazzi e che tutti gli altri potranno contare su prestiti a tassi superagevolati. E il braccio di ferro continua, tanto che tra due settimane gli studenti saranno di nuovo in piazza.
Sia come sia. Questi e altri tagli altrettanto draconiani sono la conclusione - degna o meno sarà la Storia a dircelo - di problemi che vengono da lontano. Come ha ricordato tempo fa anche il giornalista de “Il Messaggero”, Marco Fortis: la Gran Bretagna è al secondo posto nella non troppo gloriosa classifica dei Paesi più indebitati del mondo (il suo debito interno lordo, dato dalla somma di debito pubblico e debito privato, sarebbe pari al 413% del Pil; molto peggio, per capirci, dell’ex Belpaese che si fermerebbe, sempre secondo i calcoli del giornalista de “Il Messaggero”, al 319%). Non stupisce, quindi, che il Regno Unito sia stato il primo grande Paese dell’Occidente a dare il via alla stagione dei salvataggi di banche: era il 2007 (un anno prima del crac di Lehman Brothers); quella banca si chiamava Northern Rock; e a quella banca, purtroppo per gli inglesi, ne sono seguite tante altre.
Quello che stupisce, però, è il modo in cui la Gran Bretagna ha deciso di metterci una pezza. Perché appare più che lecito chiedersi se sia giusto che gli errori commessi dai banchieri e dalle tante aziende e famiglie che si sono indebitate troppo - cioè da privati - debbano essere pagati smantellando parte dei servizi pubblici. E quindi penalizzando tutti. E perché - tornando all’università - fa un po’ strano che per uscire da una tale sbornia di debiti, si invitino proprio i più giovani a indebitarsi ancora di più.
Ma questa è una matassa che toccherà ai sudditi di sua maestà sbrogliare.
Quel che interessa - o che dovrebbe interessare - molto a noi cittadini del Belpaese è che la strada imboccata dal Regno Unito è quella indicata dall’Europa dell’euro, che ha imposto a tutti i Paesi di riempire al più presto i buchi al bilancio pubblico scavati dalla crisi. Tanto è vero che tagli pesantissimi si stanno abbattendo anche su Irlanda, Spagna, Grecia e Portogallo. E presto potrebbe toccare anche all’Italia. Berlusconi o non Berlusconi.
Resta da capire, insomma, se anche noi ci vogliamo incamminare su questo sentiero oppure no. E come fare questi tagli - tagli che visto il boom del nostro debito pubblico (oggi pari a circa il 120% del Pil) appaiono ormai inevitabili - nel modo più giusto ed efficace possibile.
Chi scrive, non dice queste cose da quattro settimane. Queste cose, le ripete fino a sgolarsi da due anni e mezzo. E ancora - dalla politica, dagli opinionisti a tassametro, dai maitre-à-non-penser - non sente di aver ricevuto mezza risposta di senso compiuto. Ma aspetta fiducioso. Perché sa che prima o poi la realtà busserà anche alla nostra porta. Toc-toc, c’è qualcuno in casa?
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