Ne è convinto Maurizio Pallante, teorico italiano della decrescita: «Il debito pubblico non è un problema di cui è stata sottovalutata la gravità», sostiene in un intervento presto disponibile sul blog di Mdf, il Movimento per la Decrescita Felice. Il debito, spiega Pallante, è addirittura «il pilastro su cui si fonda la crescita nell’attuale fase storica», perché il ricorso al credito «è indispensabile per continuare a far crescere la produzione di merci». Si tratta di una scelta «consapevolmente perseguita con una totale unità d’intenti dai governi di destra e di sinistra in tutti i paesi industrializzati: non a caso – continua Pallante – la crescita dei debiti pubblici ha avuto una forte accelerazione in seguito alle misure di politica economica adottate dai governi dopo la crisi del 2008 per rilanciare la domanda attraverso le opere pubbliche e il sostegno ai consumi privati».
Diversamente, osserva Pallante, non si capirebbe come mai negli ultimi anni tutti i paesi industrializzati hanno accumulato debiti pubblici sempre più consistenti, fino a raggiungere i valori record del 2010: dall’80% del Pil nel caso del Regno Unito, fino al 225% del Giappone. Se negli Usa il debito pubblico sfiora il tetto del prodotto interno lordo, Francia e Germania superano di poco l’80% mentre il debito dell’Italia rappresenta il 119% del Pil: peggio di noi c’è solo la Grecia, col suo drammatico 142%. A fine anno, il debito italiano raggiungerà i 2.000 miliardi di euro, a fronte di un Pil 2010 fermo a 1.500 miliardi. Il nostro debito pubblico è pari alla somma di quelli di Grecia, Spagna, Portogallo e Islanda.
Per capirci: il deficit greco, su cui si è scatenata la speculazione finanziaria, è di soli 340 miliardi di euro. Ben diversi i volumi di casa nostra: «Per pagare gli interessi sul debito, ogni anno l’Italia emette nuovi titoli per un valore di 75 miliardi di euro, pari al 10% della spesa pubblica e al 5% per cento del Pil». Per contro, aggiunge Pallante, il quadro completo lo si ottiene solo sommando il debito pubblico a quello privato, delle famiglie e delle aziende. Sulla base di questo mix realistico, col 218% del rapporto debito-Pil, l’Italia non sfigura rispetto al 286% dell’Irlanda, al 250 del Portogallo, al 230 di Spagna e Olanda e persino al potente Regno Unito, il cui debito aggregato raggiunge il 245% del Pil. A fronte di queste cifre, conclude Pallante, non si può escludere la possibilità che gli Stati più indebitati decidano di troncare la spirale degli interessi passivi decidendo di fallire, trascinando al fallimento le banche che hanno sottoscritto i loro titoli e alla rovina i risparmiatori che hanno depositato il loro denaro nelle banche.
Ma perché gli Stati e le amministrazioni locali spendono sistematicamente cifre superiori ai loro introiti? Perché il sistema bancario induce le famiglie a spendere cifre superiori ai loro redditi, magari con consigli interessati e specifiche linee di credito al consumo? «La risposta è intuitiva: perché la crescita della produzione di merci ha raggiunto un livello tale che se non si spendesse più di quello che sarebbe consentito dai redditi effettivi, crescerebbero le quantità di merci invendute e si scatenerebbe una crisi di sovrapproduzione in grado di distruggere il sistema economico e produttivo fondato sulla crescita della produzione di merci». Secondo gli economisti, per ridurre il debito pubblico occorre stimolare la crescita del Pil, perché se cresce la produzione di merci aumenta anche il gettito fiscale. Per favorire la crescita, lo Stato ha due strade: ridurre le tasse, per incoraggiare i consumi, o incrementare la spesa pubblica. «Ma in entrambi i casi, il debito pubblico aumenta: per ridurlo, attraverso la crescita, bisogna aumentarlo!».
In realtà l’Europa punta su un’altra strada, quella che avrà un impatto durissimo sulla società: il taglio della spesa pubblica, fino alla prospettiva dell’inserimento nelle Costituzioni dell’obbligo del pareggio di bilancio. Problema: tartassando i consumatori, il Pil non potrà certo crescere. Secondo Pallante, neppure il Fondo Monetario Internazionale ha più soluzioni: basti pensare che la direttrice, Cristine Lagarde, ha appena proposto di schiacciare contemporaneamente il pedale del freno e quello dell’acceleratore: ridurre la spesa pubblica e/o aumentare le tasse, e al tempo stesso favorire l’aumento della domanda mediante l’aumento della spesa pubblica e/o la diminuzione delle tasse. «Il fatto è che la crisi in corso non è congiunturale, ma di sistema, e gli strumenti tradizionali di politica economica non funzionano più».
In virtù della recente globalizzazione dei mercati e della concorrenza internazionale, lo sviluppo tecnologico ha determinato un eccesso di capacità produttiva che cresce di anno in anno: «Macchinari sempre più potenti producono in tempi sempre più brevi quantità sempre maggiori di merci, con un’incidenza sempre minore di lavoro umano per unità di prodotto». Si tratta di tecnologie che richiedono costi d’investimento molto alti, alla portata solo di grandi società in grado di operare sul mercato mondiale: multinazionali che non possono rimanere ferme perché subirebbero forti danni economici in termini di ammortamento dei capitali e di mancati guadagni: per cui «devono lavorare a pieno regime, e tutto ciò che producono deve essere acquistato anche se non ce n’è bisogno».
Se l’offerta in crescita esplosiva supera di gran lunga la domanda, la prima conseguenza è la disoccupazione, che a sua volta riduce ulteriormente la domanda. Oltre a gonfiare i debiti pubblici, continua Pallante, proprio la crescita ha seminato il panico sul fronte occupazionale: in Spagna, dove dal 2007 al 2010 la percentuale dei disoccupati è cresciuta dall’8,3 al 20% e quasi un giovane su due è senza lavoro, secondo calcoli prudenziali ci sono 765.000 immobili invenduti. E nella piccola Irlanda, dove negli stessi anni la disoccupazione è galoppata dal 4,6 al 13,7%, gli immobili invenduti sono 300.000. Se le nuove tecnologie tagliano i posti di lavoro e i redditi non bastano ad acquistare le merci, ecco che «l’unico modo per incrementare la domanda è l’indebitamento».
La scienza del debito, dunque, per tenere in piedi ancora per un po’ una economia totalmente drogata, dal destino ormai segnato. Da una parte gli incentivi alle famiglie verso carte di credito, rate e mutui, e dell’altra il via libera al deficit pubblico truffaldino: in cima alla lista le cosiddette grandi opere, faraoniche e devastanti, per lo più inutili o comunque bocciate da qualsiasi rapporto costi-benefici, ma comodissime per spartire denari all’interno della casta di potere che accomuna politici, imprenditori e banchieri. Prima grandi cantieri, e poi grandi cattedrali nel deserto finanziate a spese dei cittadini e poi magari cedute a società “amiche”. Nasce anche da lì la privatizzazione selvaggia delle aziende pubbliche preposte alla gestione dei servizi sociali come acqua, energia e trasporti: si svendono i “gioielli di famiglia” proprio per ridurre l’entità colossale dei debiti contratti per realizzare le grandi opere.
Altra voce decisiva nel debito iniquo: la spesa militare. Già abnorme, si è gonfiata a dismisura dopo il crollo del Muro di Berlino con la nuova strategia “imperiale” statunitense che ha sparso eserciti e seminato guerre in tutto il mondo. Strategia ulteriormente accelerata dalla propaganda securitaria dopo l’attentato dell’11 Settembre. Un pretesto, per mettere le mani sulle regioni-chiave del pianeta, come quelle petrolifere. Peccato che l’aumento esponenziale delle spese per gli armamenti abbia progressivamente ridotto i vantaggi economici iniziali apportati dal controllo dei flussi di petrolio. Secondo Pallante, si comincia a delineare «una situazione che presenta inquietanti analogie con quella che portò alla caduta dell’Impero Romano, quando le spese militari per tenere sotto controllo le province cominciarono ad essere superiori al valore delle risorse che se ne ricavavano».
Come bloccare la spirale dei debiti pubblici? «Bisogna prendere immediatamente tre decisioni: sospendere tutte le grandi opere pubbliche deliberate in deficit, ridurre drasticamente le spese militari, ridurre drasticamente i costi della politica». In realtà sono tre aspetti dello stesso problema, insiste Pallante: «Non bisogna essere particolarmente intuitivi per capire che il sistema di potere fondato sull’alleanza strategica tra partiti politici otto-novecenteschi e grandi imprese non prenderà queste decisioni perché ne verrebbe travolto e nessun potere si fa da parte se non è costretto da una forza maggiore alla sua». Problema: ancora non esiste un blocco di potere alternativo in grado di scalzare l’alleanza che ha prodotto la catastrofe della crescita, «quindi, non c’è possibilità di superare la crisi in corso, che è destinata ad aggravarsi progressivamente e a concludersi con un crollo rovinoso».
Sempre secondo Pallante, tutto lascia credere che questo esito sia ormai inevitabile: ormai sembra solo una questione di tempo. «Se la prima a precipitare sarà la crisi climatica, sarà difficile trovare una via di scampo. Se invece la crisi climatica verrà ritardata dalla crisi economica o dalla crisi energetica, coloro che non si sono lasciati abbindolare dalla gigantesca opera di disinformazione e propaganda svolta dai mass media, e sono più di quanti si creda, possono evitare di rimanere sepolti dalle macerie». La via d’uscita? «Occorre sganciarsi dal sistema economico e produttivo fondato sulla crescita della produzione di merci, organizzando reti di economia, di produzione e di socialità alternative, in grado di funzionare autonomamente e di rispondere ai bisogni fondamentali della vita con le risorse dei territori in cui insistono». La chiave? Lavoro utile. «La decrescita abbatte il Pil ma produce occupazione qualificata, per produrre beni e servizi selezionati, realmente necessari». Ristrutturazione energetica dell’edilizia, energie rinnovabili, riduzione dei rifiuti, filiere corte alimentari e industriali, in un’ottica territoriale, distrettuale. Meno trasporti, meno costi, meno sprechi. Diminuirà il Pil? Ne saremo felici. E lavoreremo tutti.
Fonte articolo
Ci trovo una contraddizione: la Grecia è al 142% ed è in una situazione drammatica.
RispondiEliminaCome mai il Giappone, con il 225%, non è messo in una situazione peggiore?
Addirittura, il Giappone non è in crisi!
Guarda sul mio blog il filmato di Barnard e leggi i suoi aggiornamenti: potrebbero essere una risposta.
credo che sia una questione di fiducia degli investitori...
RispondiEliminaSicuramente è una questione di investitori. Ma quale investitore sarebbe così pazzo da investire in un paese che in caso di crisi farebbe perdere molti più capitali?
RispondiEliminaSicuramente anche il Giappone dovrà fare i conti con il suo debito pubblico.
RispondiEliminaGuardate che purtroppo ci sono altre vie ancora peggiori, già imboccate, che verranno ulteriormente percorse per continuare a ottenere la crescita economica predatoria:
RispondiEliminahttp://menici60d15.wordpress.com/2011/09/15/la-medicina-come-rimedio-ai-limiti-della-crescita-economica/
@menici60d15
RispondiEliminagià anche questo pseudo uso della medicina è una gran brutta gatta da pelare :(