Nelle ultime due settimane i mercati hanno mostrato segni di ripresa, mettendo a segno sull’azionario recuperi anche vistosi, rispetto alle pesantissime perdite subite in agosto e settembre. Ma si tratta di un recupero vero e proprio o solo di una reazione a condizioni di eccesso di vendita? E soprattutto, se i mercati anticipano le tendenze dell’economia reale, quante probabilità ci sono che i mercati stiano scontando uno scenario eccessivamente ottimistico? E cosa attende il nostro paese? Tentiamo di rispondere a queste domande.
In primo luogo, non bisogna dimenticare che i mercati azionari venivano da condizioni cosiddette di ipervenduto, quelle in cui l’umore degli investitori diventa talmente negativo da preconizzare una imminente “fine del mondo”. Le vendite, in questi casi, raggiungono un climax che viene interrotto da un barlume di speranza che rapidamente cede il passo ad acquisti forsennati, nel tentativo di ricoprire le vendite allo scoperto (ammesso e non concesso che ve ne siano ancora di possibili) o comunque posizioni cosiddette di “sottopeso”, cioè di investimento inferiore a quanto prescritto dai benchmark per gli investitori istituzionali. Ma non bisognerebbe perdere di vista lo scenario principale, quello che gli anglosassoni definiscono la big picture. Né bisogna dimenticare che fasi di rialzo, anche violento, sono possibili anche (e soprattutto) in mercati che si trovano in una tendenza ribassista di lungo termine.
I rischi recessivi sull’Europa restano elevati, anche se il gran lavorìo delle istituzioni europee (ed il pressing ormai mondiale sulle medesime) sembra spingere verso una qualche forma di soluzione alla crisi, tra oggi ed il G-20 di Cannes di inizio novembre. Le linee-guida di questo intervento sembrano ormai delineate: aumento della svalutazione del debito greco e ricapitalizzazione delle banche europee più esposte. Ma le buone notizie finiscono qui, perché tutto resta avvolto in un densa nebbia. Le banche europee non sono evidentemente pronte ad accettare ulteriori haircut al debito greco, perché hanno finora accantonato troppo poco rispetto a questo esito. Colpisce poi il senso di urgenza ed emergenza con il quale Jean-Claude Trichet si è di fatto accomiatato da mercati ed istituzioni internazionali: serve una ricapitalizzazione delle banche e serve ora, perché la situazione si è molto aggravata, dal 21 luglio ad oggi. Parole subito riecheggiate da Barroso e Rehn, gli stessi che replicavano sdegnati agli ammonimenti del Fondo Monetario Internazionale sul buco di capitalizzazione delle banche, all’indomani di stress test che si sono rivelati ancora una volta fallaci. E la situazione non si è aggravata dal 21 luglio ad oggi: è solo che oggi è avvenuto una presa d’atto non più rinviabile.
I mercati vogliono credere che tutto finirà per il meglio, ma dietro le quinte sono in corso dei poderosi bracci di ferro tra i governi europei su chi dovrà ricapitalizzare le banche; queste ultime guardano con terrore all’eventualità, visto che ciò determinerebbe una forte diluizione degli azionisti esistenti, date le valutazioni di borsa alquanto depresse. Come abbiamo già segnalato, l’eventualità di una ricapitalizzazione del sistema bancario segnerebbe un evento epocale nella mappa del potere finanziario del continente. Da un lato, gli azionisti attuali difficilmente troverebbero i mezzi per sottoscrivere gli aumenti (soprattutto da noi), dall’altro la chiamata in causa dei governi rischierebbe di riprodurre uno scenario “irlandese”, dove i debiti pubblici esplodono per puntellare le banche. Non è un caso che il differenziale di rendimento tra titoli di stato francesi e tedeschi sia oggi ai massimi dalla nascita dell’euro. Se Parigi dovesse sborsare cifre rilevanti per rafforzare le proprie banche, anche la tripla A del suo debito sovrano sarebbe messa a rischio, e con essa l’intera costruzione dell’EFSF. Come si può notare da queste osservazioni in ordine sparso, il sollievo per la generica volontà politica di “salvare l’euro” non dovrebbe esimere dal pensare che i problemi sono ancora tutti sul tappeto.
Come si pone il nostro paese in questo scenario? Non bene. Malgrado alcuni maldestri tentativi propagandistici sui nostri fondamentali presunti migliori (che sono tali solo limitatamente all’export, ma è dura esportare in una recessione continentale), l’Italia appare sempre più come il vero “malato d’Europa”. L’immobilismo ormai decennale sulle riforme pro-crescita (tema divenuto ormai stucchevole) si inserisce entro una manovra che è una autentica bomba ad orologeria nel cuore dell’Europa. Circa il 40 per cento del totale della nostra correzione pluriennale, infatti, rischia di essere prodotto da tagli lineari sulle agevolazioni fiscali ed assistenziali, se la nostra ormai inesistente maggioranza non dovesse trovare la famigerata quadra su una riforma “vera” del sistema fiscale.
Se ciò accadesse, il paese (già previsto entrare in recessione in questo trimestre) rischierebbe una mini-depressione che manderebbe a gambe all’aria gli sforzi comunitari per risolvere la crisi di debito sovrano, vista la nostra dimensione. Il tutto mentre la politica, terrorizzata dall’idea di dover mettere la firma su misure impopolari, potrebbe tentare la fuga verso elezioni anticipate nella prossima primavera, anche per disinnescare la minaccia del referendum elettorale. Una congiunzione astrale eccezionalmente sfavorevole, unita al tradizionale immobilismo riformatore della nostra classe politica, potrebbero abbattersi come una mannaia sul tentativo di salvataggio dell’eurozona. In uno scenario del genere una lettera della Banca centrale europea non basterebbe più, ed il paese dovrebbe essere posto (anche formalmente) sotto tutela sovranazionale.
Il tutto senza dimenticare che, anche se l’euro-crisi di debito dovesse magicamente risolversi, ciò non avverrebbe disgiuntamente da misure di ulteriore austerità, che si abbatteranno su un paese che ha stoltamente deciso che il feticcio del pareggio di bilancio verrà solo da maggiore imposizione fiscale, ordinaria e (come pare ormai ineluttabile) straordinaria, di tipo patrimoniale. Nel frattempo, mentre i soliti noti stappavano una bottiglia di quello buono per celebrare un dato di produzione industriale italiana di agosto che è palesemente figlio di un’aberrazione statistica, già a settembre il ricorso alla cassa integrazione sembra essere tornato a mordere. Non una sorpresa, visto che il paese, dopo anni passati a crescita zero, sta per imboccare la strada che porta alla recessione. Siamo ormai diventati la maggiore minaccia alla sopravvivenza dell’Eurozona.
di Mario Seminerio – LinkiestaFonte articolo
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