24/11/11

Monti non è il meno peggio. E’ l’ultimo rantolo prima del Ballo di San Vito

Il punto di partenza di questo ragionamento è una constatazione: nel 2007 è sopravvenuto il crollo repentino del sistema finanziario mondiale (sarebbe più preciso dire del sistema finanziario occidentale, perché la Cina e altri paesi del mondo emergente sono rimasti per ora fuori dalla catastrofe, per diversi motivi che non è possibile qui approfondire).  Alla fine del 2007, in sostanza, tutte le grandi banche d’investimento, e affini, che rappresentano il vero potere mondiale al momento attuale – di gran lunga più potenti di quasi tutti i più forti paesi dell’occidente, e indifferenti al destino di questi ultimi – sono andate in fallimento.

La prima cosa da rilevare – ed è molto importante sottolinearlo – è che la finanza mondiale è crollata per cause interne, endogene. Non ha subito minacce da un qualche “esterno” ostile. È affondata da sola. Il che si può anche esprimere in termini economici, con la formula di “crisi sistemica”. Perfino il presidente della Commissione Europea, Manuel Barroso, ha usato recentemente questa definizione. Che significa che una semplice cura (cura da crisi ciclica, cura da crisi di sovrapproduzione, etc.) non basterà per risollevarne le sorti. Anzi, si può dire, al contrario, che è ormai impossibile salvare il sistema, che si è rotto irrimediabilmente perché ha in sé la causa della sua fine.


Le cause di questo disastro sono da analizzare, ma qualche data di riferimento è già possibile individuarla. La più importante delle quali è il 12 novembre 1999, quando il presidente William Jefferson Clinton promulgò la legge Gramm-Leach-Bliley, che cancellava la legge Glass-Steagall del 1933 e dava licenza alle banche d’investimento e a tutta una serie di operatori finanziari, di lanciarsi in ogni forma di attività speculative.

I disastri successivi della finanza americana sono noti, anche se non sono stati abbastanza studiati. Nel 2001 crolla la Enron Corporation, dopo che erano già crollati altri giganti come la LTCM (Long Term Capital Management). Sono solo alcuni esempi dei molti eventi nuovi che cominciarono a palesarsi. Anche in funzione e come effetto di altre norme ultra-liberalizzatrici , come il Commodity Futures Modernization Act (CFMA), anch’esso firmato da Clinton nel 2000, poco prima di lasciare il suo secondo mandato, che legalizzava quasi totalmente la sottrazione da ogni forma di controllo di tutti i prodotti finanziari derivati , sia da parte della Security Exchange Commission (SEC), sia dalla Commissione che controllava il commercio dei futures.

Fu così che prese avvio una forsennata, davvero demenziale, moltiplicazione di derivati finanziari che venivano trattati fuori dalle borse e fuori da ogni controllo. Per rendersi conto di cosa è avvenuto (e di cosa sta continuando ad avvenire mentre scrivo queste righe) basti rilevare che dal 2000 alla metà del 2008 (anno del fallimento globale) questo tipo di operazioni balzarono da circa 100 trilioni di dollari a 684 trilioni.

Ora io affermo che la causa della crisi sistemica attuale deriva dalle decisioni sopra ricordate, che hanno prodotto una liberalizzazione completa dei movimenti di capitali e di creazione di derivati: decisioni che hanno creato le premesse per una smisurata crescita del debito mondiale.

Così, alla “bolla” tecnologica, che produsse il crollo del NASDAQ, seguì poi la bolla dei subprime, che ha portato al crack di quasi tutti i principali protagonisti della finanza occidentale. Questo ha condotto, come sappiamo, alla liquidazione di un gruppo ristretto di questi giganti: sono stati sacrificati, sull’altare della follia, Bear Sterns, Merrill Lynch, Morgan Stanley, Lehman Brothers, ma altri giganti, prima di tutto Goldman Sachs, si sono salvati e hanno continuato a prosperare.

Quello che qui importa sottolineare, di nuovo, è che le regole non sono state mutate affatto. Bisogna trovare una risposta a questa domanda. E la risposta è semplicissima. I “proprietari universali” non lo hanno permesso. Aggiungo: non c’è alcuna ragione per pensare che lo faranno in futuro.

Barack Obama non ha mosso una virgola in questa direzione. E, sotto la sua guida, la Federal Reserve ha erogato (tra il dicembre 2007 e il giugno 2010) la fantastica cifra di 16 trilioni di dollari, a tasso d’interesse uguale a zero, a tutte le più importanti banche d’investimento dell’Occidente. A partire dal gigantesco flusso che erogava a Citigroup 2,3 trilioni di dollari. Tra gli altri, poco meno di un trilione (864 miliardi $) è transitato sui pingui conti di Goldman Sachs.

Le cose curiose sono numerose: la prima è che la Federal Reserve ha rivelato con ciò stesso di essere la banca di tutto l’occidente, il vero e unico prestatore in ultima istanza (e che, se questo stato di cose non cambierà, il sistema è destinato a un crollo globale per molte e convergenti ragioni, la prima delle quali è che gli interessi attuali degli Stati Uniti non coincidono più, ad esempio, con gl’interessi dell’Europa). La seconda è che la manovra è stata fatta segretamente, e in violazione delle stesse leggi americane, che prevedono l’autorizzazione del Congresso degli Stati Uniti per operazioni anche di gran lunga inferiori quanto a dimensioni. La terza è che la Federal Reserve ha ricapitalizzato non solo le banche d’investimento americane, ma tutte le più importanti banche occidentali. Fanno parte dell’elenco, infatti, giganti “europei” come Deutsche bank, Paribas, Union des Banques Suisses, Credit Suisse, Barclays, the Royal Bank of Scotland etc

Questa mossa è il riconoscimento del fallimento globale della finanza americana. Ovvio che non potesse essere resa pubblica, finché qualche benemerito parlamentare non ha costretto la FED a tirare fuori le carte. Ma altrettanto ovvio che, senza cambiare le regole, le banche ricapitalizzate avrebbero continuato a muoversi verso il precipizio alla stessa velocità. Solo che gli asset tossici americani, già sparpagliati su tutto il mercato globale, non potevano e non possono più essere venduti, perché non ci sono più compratori disposti ad acquistarli.

In una certa parte sono stati assorbiti dalla Federal Reserve. Ma gli altri sono rimasti e sono carta straccia inutilizzabile. In sostanza il volume del debito, già spropositato (si calcola da più parti che abbia ormai superato di almeno una quindicina di volte il prodotto interno lordo mondiale, scavando un fossato incolmabile tra il mercato dei beni e servizi materiali e un mercato finanziario sempre più fittizio e irreale) si va ulteriormente ingigantendo.

Chiunque dovrebbe capire che la tenuta di questa nuova bolla, dalle dimensioni senza alcun precedente, non può durare a lungo. E, quando esploderà, l’effetto si annuncia ben più grave del crollo del 1929.

È in questo contesto che esplode il problema dei debiti sovrani europei. La Grecia ha svolto il ruolo di prima vittima, di cavia sperimentale. Ma, se si capisce il meccanismo, si vedrà subito che la questione è di vita o di morte per la sopravvivenza degli Stati europei, di tutti (in quanto Stati sovrani come li conosciamo al momento), e per la sopravvivenza stessa di una Europa sovrana, composta di Stati sovrani.

Non si vede infatti come possa esistere una Europa sovrana se essa risulterà composta di stati assoggettati a logiche e interessi “esterni”, in quanto non sottoposti ad alcuna verifica di legittimità democratica da parte dei rispettivi popoli, che rimangono l’unica sorgente di potere, ma ormai vengono sopravanzati da una logica tecnocratica che non intende e non può più dare spazio ad alcun controllo dal basso del suo operato.

L’origine di questa crisi è, a mio parere, il derivato di un tentativo disperato delle grandi banche d’investimento di riprendere la corsa forsennata a redditività “over 15%“(il famoso ROE, ovvero Return on Equity), nelle condizioni in cui la crescita dell’intero occidente (sempre che ce ne sia una) è ormai confinata nei decimali dell’unità. Se c’è una prova della follia, sta proprio in questa assurda pretesa.

L’occasione era già stata preparata nel momento stesso e nel modo in cui fu concepito l’euro. Fu in quel momento, alla fine degli anni ’90, che l’Europa autorizzò le banche d’investimento del pianeta a considerare a zero rischio i debiti dei paesi dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico).

Come scrive il New York Times in un articolo assai rivelatore dell’11/11/11, erano loro quelli che “made it”, che avevano fatto il grande passo di creare una moneta nuova. Che, nelle intenzioni di alcuni, avrebbe dovuto diventare un alter ego del dollaro, nelle intenzioni di altri un contraltare del dollaro, un’alternativa alla divisa statunitense. Ma in ogni caso si trattava di un’operazione dall’evidente significato globale e occorreva lanciare in tutte le direzioni un messaggio di assoluta sicurezza: noi saremo in grado di proteggere tutti da ogni fallimento. Appunto: i capitali che arriveranno qui saranno assicurati al 100%: rischio zero.

Adesso sappiamo che si sbagliarono di grosso. Ma allora sembrava il contrario, e non ci furono voci che misero in discussione quell’assunto.

Le grandi banche d’investimento, quelle americane in primis (ma anche quelle europee, i gestori dei fondi pensione, dei fondi comuni, delle compagnie di assicurazione, tutti emergenti dal disastro dei subprime che si erano sparsi come un’epidemia su tutti i mercati), si precipitarono a piazzare le loro liquidità (o, più brutalmente, nell’aprire altri debiti) nell’acquisto dei bonds europei.

E, come di nuovo scrive il New York Times nell’articolo citato (“What banks once saw as safe has now turned toxic”. Quello che le banche avevano considerato sicuro, si è ora trasformato in tossico), «intrappolati nel caos del subprime, i prestatori avevano visto il debito europeo come un paradiso da cui trarre profitto». E, per trarre il massimo profitto, in situazione pressoché disperata di insolvenza, ecco che, «per paura e avidità», si gettarono su quei bond che avrebbero garantito il massimo interesse. Dunque il loro obiettivo diventarono subito non i più sicuri (era stato detto che tutti sarebbero stati ugualmente sicuri, sebbene l’evidenza dicesse il contrario), ma i più redditizi. L’esempio greco è illuminante.

Ma, a parte i sesquipedali “errori” di valutazione della finanza internazionale, più simili a cecità ideologica assoluta, si vede qui in trasparenza che l’Europa odierna, quella di Lisbona, altro non è che il luogo dove le decisioni dei “proprietari universali” (così li chiama, opportunamente, Luciano Gallino) vengono trasformate in leggi, cioè dove la rapina del sistema a danno degli Stati e dei popoli viene legalizzata.

Intendo precisare che la finanziarizzazione del debito pubblico degli Stati non è stato un incidente di percorso, né un portato oggettivo di tendenze inevitabili. Essa è stata introdotta da noi con una decisione politica precisissima, ben meditata e preparata. Questa decisione politica si chiama Trattato di Maastricht e, per realizzarla, sono state spese risorse enormi, un esercito di propagandisti e zelatori è stato messo in movimento, armato e finanziato da decine di centri di influenza, di think-tanks, di lobbies.

Qui varrebbe la pena di analizzare in dettaglio come funziona la macchina che ha prodotto una tecnocrazia di “posseduti” dal denaro.

Una rete di rapporti che copre tutte le assemblee elettive europee, i governi, le coorti di funzionari provenienti dai centri universitari sotto il controllo della finanza, le commissioni governative, i dipartimenti della Commissione Europea, i dirigenti dei partiti politici.

Questo campo di forze è stato cementato dall’ideologia della insostituibile efficienza dei mercati finanziari, dalla sacralità delle valutazioni delle agenzie di rating, dall’ideologia della crescita, mantra che porta in sé una serie di corollari dogmatici assoluti: la inevitabilità della globalizzazione, l’interesse superiore che deve annullare, in nome della stessa crescita, ogni pretesa di “particulare”, di “local”, di non standardizzato. Cioè, per definizione di questo stuolo di sacerdoti della religione del dominio finanziario, ostile all’efficienza, cioè ostile alla “razionalità della rapina”.

È con questa micidiale rete di pressioni che il ristrettissimo vertice dei “proprietari universali” riesce a far passare la propria visione del mondo. È mediante questo esercito di “posseduti”, del quale sono parte integrante i massimi dirigenti politici dei partiti di destra e di sinistra, dei ministri di ogni ordine e rango, dei vertici militari e dei servizi segreti, degli ambiti accademici più importanti e meglio retribuiti che è passata l’ideologia del pensiero unico finanziario.

Il risultato è stato ottenuto, e ben prima di questa crisi. Il Trattato di Maastricht vieta alle banche centrali di finanziare direttamente gli Stati, obbligandoli, letteralmente, a cercare prestatori nei mercati finanziari.

Il debito degli Stati si trasforma così in una merce finanziaria, che può essere comprata e venduta su ogni mercato, può essere oggetto di speculazione e scommessa, può essere spezzettata in parti e inserita in “pacchetti” di derivati, districare la cui composizione diventa impossibile a chiunque.

I destini sottostanti dei popoli, delle donne e uomini in carne ed ossa, vengono totalmente oscurati. Ciò che rimane visibile sono le sequenze di valutazioni delle borse che ormai sfilano sotto gli occhi dei telespettatori nella stazioni ferroviarie, sui treni, in ogni programma informativo. È l’ipnosi di massa cui è impossibile sottrarsi. Il tenore di vita di milioni e milioni di individui viene sconvolto in base a meccanismi che paiono inesorabili, comunque sconosciuti alle grandi masse, spesso manovrati da pochissime mani, spesso addirittura frutto di elaborazioni automatiche di computer opportunamente preparati.

Sono decine gli esempi che potrebbero essere portati per svelare il meccanismo del dominio dei “proprietari universali”, un dominio che ha già annullato da tempo ogni illusione di democrazia. La democrazia liberale, la divisione dei poteri, sono stati da tempo sostituiti da meccanismi decisionali che scavalcano ogni forma di controllo. Nell’utilissimo libro di Luciano Gallino intitolato “Con i soldi degli altri”, vengono portati esempi al tempo stesso agghiaccianti e illuminanti di come l’Europa, cioè il Consiglio, la Commissione, il Parlamento usino commissionare la stesura delle regole a gruppi privati di “esperti”, che sono, tra i “posseduti”, i più direttamente legati proprio ai grandi centri finanziari.

È superfluo notare che normative cruciali sono state fatte passare nella più grande ignoranza della stragrande maggioranza degli stessi parlamentari europei, che votano quasi tutto ciò che viene loro proposto senza sapere cosa votano e come è stata confezionata la polpetta avvelenata che viene loro proposta, compilata in uffici privati, a loro volta profumatamente retribuiti per organizzare la rapina su pubblici ignari.

Alla luce di tutto questo, non dovrebbe stupire il fatto nuovo che stiamo registrando: di fronte a una crisi che diventa sempre più ingovernabile, i “proprietari universali” appaiono costretti a portare al potere, direttamente nei singoli Stati, i loro uomini più fidati.

La politica tradizionale, negli Stati più deboli, è troppo corrotta e inefficiente, troppo necessitata dallo scendere a patti – nel modo più indecoroso, naturalmente, cioè con il voto di scambio – per poter consentire la macelleria sociale necessaria. Quindi si va verso “governi tecnici” (presentati cioè come tali, ma niente affatto tecnici) guidati da uomini di assoluta fiducia, che devono agire al di fuori delle norme democratiche precedenti. L’arrivo al potere in Grecia di Lucas Papademos (ex governatore della Banca Centrale Greca dal 1994 al 2002, cioè uno degli organizzatori dei conti truccati fatti da Goldman Sachs, che hanno aperto l’offensiva contro Atene), di Mario Draghi al vertice della Banca Centrale Europea (uomo di Goldman Sachs, come vice-presidente per l’Europa dal 2002 al 2005, stessi anni in cui si realizza l’affondamento greco), di Mario Monti alla testa del governo Napolitano (anche Monti, che dal 2005 era consigliere internazionale della stessa Goldman Sachs): tutti questi avvicendamenti, accompagnati dalla ripetizione che si devono adottare “misure impopolari”, cioè misure antipopolari, e che non si deve assolutamente chiedere il parere dei popoli, cioè niente elezioni, niente referendum, solo decisioni “tecniche” per realizzare la T.I.N.A. (There Is No Alternative), dimostrano che la situazione è divenuta ormai ingovernabile e che i poteri forti hanno scelto di adottare misure energiche per affrontare l’imprevisto.

Tra le misure energiche, ovviamente, non è previsto il cambio delle regole vigenti. Se non nel senso, del tutto opposto, di trasformarle in leggi universali alle quali non sarà possibile sfuggire. Non è un caso che i governi di Grecia e Italia siano stati di fatto commissariati dalla Banca Centrale Europea (e da Goldman Sachs), invertendo quasi comicamente il dogma già elevato sugli altari bancari dell’occidente: la Banca Centrale dev’essere del tutto indipendente dai poteri politici. Adesso i poteri politici sono diventati dipendenti da quelli della Banca Centrale, al punto che è quest’ultima che decide come si formano e come devono essere esautorati.

In fila, ad aspettare la loro sorte, ci sono Spagna, Portogallo, Irlanda. E, tra non molto, anche Francia e altri. Dunque il costo del presunto risanamento (comunque impossibile perché la massa del debito e di diversi ordini di grandezza superiore alle possibilità tecniche di ripianarlo) deve ricadere sulla gente comune europea. Questo, a sua volta, significa la rottura del patto sociale che ha retto la costruzione europea negli ultimi cinquant’anni. In particolare questa rottura sarà percepita subito dai paesi dell’Europa occidentale, che hanno potuto apprezzare i vantaggi del welfare state. Il resto dei 27 percepirà con qualche ritardo, ma non potrà uscirne meglio.

Resta il grande interrogativo: quale sarà la reazione popolare a questa svolta, sicuramente drammatica? Il quadro visibile dice che, in questo momento, in Europa non esiste una opposizione organizzata, continentale, a questa svolta.

I partiti delle sinistre si rivelano imbelli e privi di ogni visione alternativa. Le leadership, sia di destra che si sinistra, non solo non si rivelano all’altezza, ma danno l’impressione di non capire nemmeno quello che sta accadendo.

E neanche questo non deve stupire. Essendo essi “posseduti”, non fanno che riflettere l’incertezza e il panico che pervade i “proprietari universali” loro committenti.

Si danno due esiti possibili: nel primo i popoli europei saranno schiacciati, cioè divisi, manipolati e repressi, con varie gradazioni di ciascuna di queste componenti. Oppure reagiranno. Ma, privi di guida come sono, lo potranno fare solo in forme confuse, senza obiettivi politici comuni, senza una “visione strategica”. Il rischio è una generale deriva a destra, verso forme xenofobiche, reazionarie, isolazioniste, primitive. E, anche questa è la premessa per una sconfitta epocale, che precede una catastrofe continentale: in primo luogo dei diritti e delle libertà, in secondo e immediato luogo, delle condizioni sociali di larghissime masse di popolo.

Tutto ciò impone una riflessione di tutti coloro che, invece di piangere e deprecare, si pongo il problema del che fare. Quello che manca è un grande partito europeo di alternativa. Un “Partito dei Popoli Europei”. Da creare nei tempi più rapidi possibile. I movimenti, per lo più giovanili, che si stanno formando, possono esserne la base. L’essenziale è non illudersi che, da soli, possano produrre questo partito europeo.

Ma la cosa più grave è che, con queste ricette (quelle di Draghi, Monti e Napolitano, cioè quelle della finanza vincente) non si risolverà nulla. Tutte le chiacchiere con cui viene ammantata la serie delle misure anti-popolari sono fondate sull’ipotesi di una futura crescita economica. Ma tutto ciò che sappiamo è che l’Europa sta andando in recessione, tutta intera. La stessa locomotiva tedesca è prevista in crescita, per il 2012, dello 0,8%, che equivale alla stagnazione. Per gli altri è peggio. Dunque impostare sulla crescita un programma di sacrifici a intere popolazioni, per salvare le banche, significa costruire sulla sabbia. Tra una manciata di mesi sarà evidente che la crisi della finanza e dell’economia occidentale è irrimediabile.

La prospettiva è un altro 1929. Solo che sarà di gran lunga più devastante. Le previsioni più attendibili vengono da un gruppo di esperti francesi (per questo solo fatto più attendibili, perché ciò che scrivono i commentatori americani e britannici è ormai quasi del tutto inattendibile) raggruppati dietro il bollettino con sigla GEAB (Global Europe Anticipation Bulletin).

Anche loro individuano una “crisi sistemica globale”. Nella quale sono già stati bruciati, dallo scorso luglio, circa 15 trilioni di dollari. La deriva, sostengono, è inarrestabile e porterà alla sparizione nel nulla, da dove sono venuti, di altri 30 trilioni di dollari nel corso del 2012. com’è noto, sono già stati bruciati, dallo scorso luglio, 15 trilioni di dollari. Si prevede che, dopo la svalutazione reale del 50% del debito greco, seguiranno le svalutazioni, mediamente, del 30% dei debiti italiano, spagnolo, portoghese, irlandese.

Tuttavia il gruppo GEAB appare assai meno preoccupato del destino dell’euro di quanto non sia di quello del dollaro USA. Infatti – sulla base di quanto già detto in precedenza in queste righe – la detonazione dei debiti pubblici europei, oltre a mettere in crisi le banche francesi, tedesche, belghe e olandesi, produrrà l’esplosione del debito pubblico americano, data l’esposizione degli investitori istituzionali statunitensi sul debito europeo. La cifra più impressionante in merito viene dalla valutazione del debito privato negli Stati Uniti che, oltre allo stato pre-comatoso di quello pubblico, ha ormai raggiunto il 240% del PIL (basti pensare che il debito privato greco, già altissimo, raggiunge appena il 120% del PIL di quel paese. Quello italiano, si noti, è appena del 43% del PIL). La conseguenza, prevista, potrebbe essere una misura obbligata: la svalutazione del dollaro del 30% almeno, unico modo per attenuare il peso dell’indebitamento complessivo degli Stati Uniti.

In sostanza chi sta peggio non è l’Europa, ma sono gli Stati Uniti. In queste condizioni una vittoria di Obama appare sempre meno probabile. E se vince uno dei candidati repubblicani, c’è ragione di temere il peggio per il contesto internazionale. Perché anche di questo occorre tenere conto. La crisi colpisce l’economia e la finanza occidentale, ma occorre cercare di capire gli effetti che questa produrrà sul resto del mondo e sulle sue relazioni con l’Occidente. Una cosa è certa: il quadro mondiale sta entrando in una fase di vertiginosa ebollizione. È il contesto che prepara una guerra.

di Giulietto Chiesa

Megachipdue

Fonte articolo

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