17/03/12

Si scrive accordo, ma si legge ricatto

Elsa Fornero Articolo 18 Paccata miliardi accordo ricatti Claudio Messora Byoblu Byoblu.com

articolo di Valerio Valentini per Byoblu.com

 Probabilmente il fatto di essere neofiti del potere politico deve aver dato alla testa ad alcuni tecnici. I quali denunciano un forte deficit di grammatica democratica. Il che non è affatto sconvolgente in Italia, soprattutto negli ultimi vent’anni: dopo aver avuto come ministri della repubblica ex showgirl e secessionisti, ormai non ci scandalizziamo più di niente. Tuttavia il punto è proprio questo: quello che doveva essere il governo della svolta, il simbolo di un Paese che cambia pagina, si è invece dimostrato solamente un’appendice dell’ammuffito sistema partitocratico (dal quale molti tecnici, o burocrati, provengono). Ed è anche più pericolosa, nella misura in cui nasconde la sua autocratica prepotenza sotto il velo della sobrietà e dell'efficienza.

 Prendete il ministro Fornero, ad esempio, la quale deve essere convinta che ormai ogni legge o disposizione che ruoti intorno al tema del lavoro sia un giocattolo nelle sue mani e che i finanziamenti necessari per le riforme possano essere sbloccati in base ai suoi capricci. “Se uno comincia a dire no, perché dovremmo mettere una paccata (sic!) di miliardi?”. Sorvolando sullo sbraco linguistico di un Ministro della Repubblica – lo stesso ministro che pretende rigore dai giornalisti colpevoli di offendere la sua dignità di donna utilizzando l’articolo determinativo davanti al suo cognome – la domanda che mi sorge spontanea è questa: ma che razza di idea ha Elsa Fornero del concetto di “accordo”?

 Sul vocabolario online della Treccani, alla voce “accordo” si legge: “Incontro di volontà per cui due o più persone convengono di seguire un determinato comportamento nel reciproco interesse, per raggiungere un fine comune o per compiere insieme un’azione o un’impresa”. Quello che ha in mente la Fornero (ops, m’è scappato l’articolo!) è un’altra cosa. La logica del “io ti do i soldi soltanto a patto che tu non dici no alle riforme che voglio io” si avvicina di più al concetto di ricatto che in effetti, sempre secondo il vocabolario Treccani, è ravvisabile nei casi in cui “si è messi nella condizione di non poter opporre un rifiuto a quanto ci vien chiesto”.

 Tuttavia, le mie non vogliono essere affatto pedanterie lessicali. Il punto è che, confondendo i ricatti con gli accordi, o meglio spacciando i primi per i secondi, si rischia di far crollare le travi portanti di un patto sociale. Un ministro non è un donatore, per cui può arrogarsi il diritto di offrire i propri soldi solo alle condizioni che lui pone. Un ministro amministra soldi pubblici per conto e nell’interesse dei cittadini. Cittadini che dovrebbero veder tutelata la propria esistenza dai propri dipendenti pubblici (tecnici o politici che siano). Il che non significa che bisogna dar ragione per forza ai sindacati, ma che le decisioni, soprattutto quelle importanti, vanno prese avendo come fine principale quello di garantire un’esistenza migliore alle persone. Che invece, sempre più spesso, la propria esistenza la vedono subordinata alle decisioni di un governo non eletto da nessuno, ma imposto dai gruppi d’affari internazionali, che di certo non hanno mai dimostrato – men che meno in questi ultimi anni – di avere in cima alla lista delle proprie preoccupazioni le condizioni di vita e la felicità delle persone. Bisogna chiedere a loro, agli uomini e alle donne italiani, cosa ne pensino di questo benedetto articolo 18. I tavoli con le parti sociali, del resto, in questo Paese finiscono sempre con grosse abbuffate in cui tutti si dichiarano soddisfatti e fiduciosi, in cui “i ministri dei temporali, con un tripudio di tromboni, auspicano democrazia con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni”, ma gli unici che poi che ci rimettono sono puntualmente i lavoratori, cioè quelli per il cui interesse quel tavolo si indice. E gli unici, se ci pensate, che da quel tavolo sono davvero esclusi. Perché in effetti, se io non sono iscritto a nessun sindacato (e visti i sindacati che ci sono in giro - Fiom a parte - è una cosa ragionevole oltreché legittima) non sono rappresentato da nessuno di quelli che stanno riformando il cosiddetto mondo del lavoro. Certo non da un ministro che fino all’altro ieri era vicepresidente di una banca che ha evaso il fisco. E certamente neppure da Confindustria, diretta da una signora che ritiene che il problema dell’economia italiana sia l’impossibilità di licenziare i ladri e i fannulloni e che dirige un’azienda che paga tangenti e fa rientrare i soldi tenuti all’estero tramite lo scudo fiscale.

 Allora chi è che sta decidendo per me, ragazzo di vent’anni, e per il mio futuro? Chi è che sta pensando di cancellare dall’oggi al domani quei pochi residui diritti di cui potrei godere da futuro lavoratore? Chi è che mi sta condannando non tanto a una minore ricchezza – di questo posso farmene una ragione – quanto a un’esistenza priva di tutele, in cui potrò essere licenziato seduta stante se il mio dirigente si sveglia con la luna storta o non sopporta i miei capelli lunghi? È questo che è in ballo: le condizioni di vita di milioni di uomini e di donne. Questa è la posta in gioco su quel “tavolo di trattative” su cui il Ministro Fornero pensa di poter fare ciò che vuole lei, di dare le paccate solo a chi dice “sì grazie”.

 L’articolo 18 è una questione con la quale saranno i cittadini a dover fare i conti, e allore le "paccate" inizieranno a darle loro. E non saranno carezze.

di Valerio Valentini

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