26/10/09

Stop inceneritori, meglio 200.000 posti di lavoro puliti

Per favore, non inceneriamo anche il nostro futuro. Cambiamo aria, mettiamo al bando gli inceneritori: costano moltissimo, minacciano la salute, non risolvono il problema dei rifiuti. Queste le parole d’ordine della campagna ambientalista contro gli impianti di incenerimento, denominati “termovalorizzatori”. «Una furbesca interpretazione delle direttive europee – accusa Michele Boato – fa credere che gli inceneritori comportino la riutilizzazione dei rifiuti». Niente di più falso. L’alternativa? La raccolta differenziata porta a porta: investendo appena un miliardo di euro, si ottengono 200.000 posti di lavoro. E senza inquinare, né provocare tumori.

«In realtà, anche se il calore della combustione è utilizzato per produrre elettricità, si tratta sempre di inceneritori a bassissimo recupero di energia», premette Boato: «Riciclare la carta fa recuperare 4 volte l’energia che si produce bruciandola». Per non parlare della plastica: riciclandola, si recuperare fino a 26 volte l’energia prodotta incenerendola. L’Europa, ricordano i promotori della campagna “No Inc” e della rete “Rifiuti zero”, raccomanda soprattutto prevenzione: riduzione dei rifiuti all’origine (vuoto a rendere, prodotti sfusi, liquidi alla spina, compostaggio domestico), nonché raccolta separata dei materiali e utilizzo di merci facilmente riciclabili. Solo in via del tutto subordinata si può ricorrere a discariche e inceneritori.

E’ mistificatorio considerare i “termovalorizzatori” alla strega di centrali termoelettriche, avvertono gli ambientalisti: «Una centrale è progettata per bruciare un combustibile la cui composizione è relativamente costante e il cui inquinamento può essere analizzato e ridotto», a differenza di un altoforno brucia-tutto, nel quale la separazione meccanica per differenziare le tipologie di rifiuti è inefficace: «La grossolana separazione di una frazione “umida” (ed eventualmente del vetro) dal resto, per produrre combustibile derivato dai rifiuti, è mira soltanto a legittimare i grossi affari associati alla vendita di inceneritori o alla riconversione di vecchie centrali termoelettriche dismesse».

Gli inceneritori, aggiungono i promotori della campagna ecologica, possono funzionare bene solo se bruciano materiale combustibile, cioè carta, plastica e legno. «Gli inceneritori impediscono perciò la possibilità di riutilizzare e riciclare la carta e la plastica. Viene così anche vanificato il generoso impegno di tante associazioni di volontariato, scuole e famiglie per la raccolta separata dei rifiuti». E dire che c’è un enorme bisogno di riciclo: «Degli oltre 10 milioni di tonnellate di carta e cartoni “consumati” in Italia, solo poco più di 2,5 milioni sono riciclati e circa 7,5 milioni finiscono in discariche e inceneritori».

La scelta di costruire impianti di incenerimento, inoltre, scoraggia lo sviluppo di tecniche di raccolta separata, frazionamento e commercializzazione delle merci riciclate. Bruciare tutto disincentiva la stessa progettazione di merci più durature, destinate a non trasformarsi subito in rifiuti e, magari, ad essere facilmente riciclate. «Tutte operazioni – osserva Michele Boato – che potrebbero assicurare occupazione e innovazione tecnico-scientifica. In Germania la riduzione dei rifiuti (-16%) e l’aumento del riciclo degli imballaggi iniziati con il decreto Toepfer del 1991 ha mandato in crisi gli inceneritori programmati e costruiti dal 1980 al 1995».

Da noi invece si comincia a fare i conti con quella che si annuncia come la “peste” del duemila. Bruciando carta, legno e soprattutto plastiche, si liberano nell’aria metalli tossici, micro-particelle e nanopolveri, nonché acidi, diossine, Pcb. «Sostanze tossiche e altamente cancerogene, che non sono significativamente filtrate neanche dai più sofisticati mezzi di abbattimento». Dai documenti ufficiali europei risulta che in Italia il 64% delle diossine è prodotto proprio dagli impianti di incenerimento, sottolineano i promotori della campagna verde.

La normativa italiana è «inadeguata a tutelare la salute», visto che un inceneritore può “legalmente” immettere nell’ambiente sostanze nocive, «compresi cancerogeni certi, in quantità rilevanti, e con controlli assai poco soddisfacenti». Un esempio: un inceneritore da 800 tonnellate di rifiuti al giorno, rispettando i limiti di legge, emette 504.000 nanogrammi quotidiani di diossina. Subito dopo il traffico, aggiunge Boato, «le emissioni degli inceneritori sono una delle cause principali del moltiplicarsi di malattie degenerative in Europa, con enormi costi sociali».

E’ ora di chiedere, quindi, la messa al bando dei “termovalorizzatori”, imitando la richiestra peraltro già avanzata dall’ordine nazionale dei medici francesi e da quello regionale dell’Emilia Romagna, preoccupati per il ruolo delle ceneri nell’atmosfera che respiriamo. Il residuo rappresenta il 25% del peso dei rifiuti trattati e contiene sostanze facilmente solubili in acqua. «Costruire inceneritori comporta quindi la creazione di discariche speciali, con ulteriori effetti ambientali su acque superficiali e sotterranee». Dov’è allora il vantaggio dell’incenerimento?

Non certo nel portafoglio dei contribuenti: «Bruciare i rifiuti – dichiara Boato – costa molto più che raccoglierli separatamente e riciclarli: da 100 a 300 euro a tonnellata». La “convenienza” economica, aggiunge, «sta tutta nella truffa del finanziamento statale: che paga, coi nostri soldi, l’energia elettrica prodotta dagli inceneritori». Energia pagata «circa 18 centesimi al kilowattora», ovvero «oltre 4 volte il suo prezzo di mercato». Per Boato si tratta di «un conto truccato, che paghiamo noi cittadini con le tasse e le bollette».

Alternative? L’opzione rifiuti-zero e la raccolta differenziata porta a porta. «In Italia – rilevano i promotori della campagna – molte decine di Comuni, non solo piccoli, superano l’80% di raccolta differenziata e qualcuno sta puntando a superare il 90%». Questi risultati si ottengono con una buona informazione e il coinvolgimento degli abitanti, verso un sistema di raccolta “domiciliare”, in giorni diversi per tipo di rifiuti; questo facilita il riciclo e, rivendendo alle industrie i vari materiali (carta, vetro e metalli) si riducono i costi complessivi e le tasse sui rifiuti. «Anche il residuo finora chiamato “non riciclabile” viene ora trasformato, con tecnologia italiana, in una “sabbia” per arredi da esterno e calcestruzzi».

Investendo meno di un miliardo di euro, assicura Boato, il governo può servire con la raccolta domiciliare i 45 milioni di italiani non ancora raggiunti dal servizio. «Si creerebbero così non meno di 200.000 posti di lavoro, contro i soli 3.000 occupati che lavorano tra inceneritori e discariche», impianti peraltro del costo di 10-15 miliardi di euro. «La ricaduta occupazionale del riciclo rispetto all’incenerimento è di mille posti a uno: questa sì che è “economia verde”».

di Giorgio Cattaneo

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