27/11/09

Quel part time che lo ha “rovinato”


L’uomo ricco non è colui che ha di più ma colui che sa fare a meno del maggior numero di cose. (H. D. Thoreau)

Si può vedere qualcosa che accade accanto a sé e non accorgersi di aver visto? Ma di più, vederlo accadere ogni giorno di ogni mese di ogni anno per dieci anni, e non capirlo? Si può. Soprattutto se questo qualcosa è la semplice, dimessa immagine di un ometto che, tutto solo, zappa, irriga, raccoglie; un’immagine desueta ed estranea come il motivo per cui egli lo fa. Si può vederlo e non accorgersene; e soprattutto, si può, se dall’altra parte ci sono cinque e più ore al giorno di televisione spazzatura, e la frequentazione assidua, assidua, assidua di un modello di vita frenetico e aggressivo il cui ininterrotto vociare è in grado di coprire ogni altra evidenza.

Dunque accade che un ometto solitario da dieci anni zappa, irriga, raccoglie. Raccoglie ciò che diverrà una buona parte del suo cibo senza che egli debba passare per le forche caudine del mercato. Intanto continua a svolgere il suo “normale” (normale?) lavoro retribuito, ovvero a vendere il tempo della propria vita ricevendone in cambio del denaro con cui comprare tutto ciò di cui ha bisogno. Ma un giorno l’ometto si accorge che quel denaro è troppo, che egli non ha più bisogno di vendere tutto il tempo della propria vita perché non tutto ciò di cui ha bisogno deve comprarlo. Una buona parte del cibo, lo abbiamo appena detto, lo produce da sé. Altre cose ha imparato a farsele da solo. E altre cose ancora, di cui credeva di aver bisogno, ha scoperto che non gli sono affatto necessarie. Egli impara a vedere tutto ciò come una ricchezza, come una miriade di piccole gocce di libertà che egli va poco a poco aggiungendo alla propria vita. Scopre infine l’esistenza di una cosa che chiamano part time, ovvero che le regole del loro mondo gli consentono di vendere soltanto metà del proprio tempo, dimezzando il suo reddito economico ma guadagnando metà della propria vita. E non esita a farlo.

Qualcuno vive fisicamente in prossimità di quest’ometto pieno di idee balzan e, vive con la mente assordata, intontita dal frastuono del mondo esterno. Lo vede fare ma non si accorge di vederlo. Un po’ di tempo fa questa persona lo ha anche sentito parlare di part time ma non lo ha preso sul serio: chi mai vorrebbe volontariamente dimezzare i propri guadagni? Scherziamo? Eppure, in un mondo in cui tutti si affannano, corrono, si sgomitano a vicenda per ammucchiare quanto più denaro possibile da spendere per ammucchiare attorno a sé quante più assurde cianfrusaglie possibile da buttar via nel più breve tempo possibile per comprare altre cianfrusaglie ancor più costose, più ingombranti, più inutili cioè più assurde con la maggiore rapidità possibile, in questo mondo c’è un tale che cerca il “di più” nel “di meno”, che vede nel tempo della propria vita la ricchezza e nella coatta corsa al denaro la miseria.

Un secolo e mezzo fa qualcun altro la pensava nello stesso modo: era quel Henry David Thoreau che a metà dell’800 visse per due anni in una capanna da lui stesso costruita nei boschi che circondano il lago Walden negli Stati Uniti e scrisse su quell’esperienza un libro ancor oggi ristampato e letto. «L’uomo ricco», egli scriveva, «non è colui che ha di più ma colui che sa fare a meno del maggior numero di cose». Ed è importante quel verbo: sapere; non «colui che può fare a meno» bensì «colui che sa fare a meno» perché questa non è una condizione che giunge per un insieme fortuito di cause esterne, ma è il frutto di un saper fare, di una conoscenza acquisita del mondo reale e della conseguente capacità di sapersi muovere in esso con saggezza e armonia. Non è un frutto del fato ma della volontà.

Un giorno quella persona che vede e non si accorge di vedere, staccatasi per un momento dal suo televisore, domanda all’ometto dalle idee balzane quanto guadagna. «Metà di quanto guadagnavo prima», risponde l’ometto che ha scelto di lavorare in part time, «ovvero 800 euro al mese». «A te il part time ti ha rovinato» commenta sprezzante l’altra persona. E torna davanti al suo televisore. Manichini in corsa frenetica in mezzo a un’ininterrotta cacofonia di urla sguaiate l’attendono come sempre. E’ il suo mondo. Ineffabilmente vuoto. Desolato e calamitante come una dose di eroina.

Dunque sono “rovinato”, pensa l’ometto dagli 800 euro al mese. Cioè povero. Guarda le sue dieci cassette di splendidi kaki che ha appena finito di raccogliere, le file di barattoli di marmellata, di conserve, di olive, di legumi che ha messo insieme durante l’estate da poco conclusa e nel primo autunno. Guarda fuori dalla finestra, vede l’erba che è tornata a crescere fra gli alberi, vede in lontananza il piccolo anfiteatro formato dall’olivo, dal bambù, dal kaki e dal ciliegio vicino all’invisibile ruscello che da poche settimane ha ripreso a scorrere, alimentato dalle nuove piogge. Tutto ciò, agli occhi del loro mondo, non vale nulla. Quel luogo non produce reddito, non produce nulla. Come lui che in quei sei mesi di sospensione del suo lavoro retribuito non guadagna nulla, non produce nulla.

Egli anche pensa che di quei sei mesi di vita non venduta ne restano ormai meno della metà, che poi dovrà tornare a vendere la sua vita, cinque giorni alla settimana, otto ore al giorno per altri sei mesi. «Io sono povero» pensa ricordando Thoreau, «ma non perché guadagno “solo” 800 euro al mese, bensì perché non sono ancora riuscito a fare a meno anche di quelli». Si ripromette di migliorare, di arricchire sempre di più la propria vita, ovvero di guadagnare sempre di meno. Aspira al giorno in cui qualcuno, staccandosi per un attimo a fatica dal suo televisore, gli verrà a dire che le dimissioni lo hanno definitivamente rovinato.

di Filippo Schillaci

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