Una raggelante immaginaria istantanea è ciò che riesce a mostrare con una durezza sconcertante l'ultima cocente e disarmante sconfitta civica subita dal nostro paese. L'immagine degli autobus blindati carichi di migranti scortati da numerosi agenti in tenuta anti-sommossa nel tripudio dei gruppi di cittadini rosarnesi affollatisi lungo Via Nazionale lascia un messaggio chiaro e al tempo stesso straziante: non siamo in grado di convivere.
La scena ricorda impropriamente le immagini degli autobus scolastici dell'Alabama delle prime scuole integrazioniste fatte bersaglio dell'odio bianco di allora. Impropriamente perché questa volta, a differenza di allora, ad uscirne male sono tutte le parti in campo.
I rivoltosi dalla pelle nera, ispirati dai più legittimi, encomiabili e, oserei dire, eroici sentimenti di ribellione ad una situazione di sfruttamento strutturale, ingabbiatisi da soli in uno sfogo velleitario ed indiscriminato contro l'intera popolazione bianca rosarnese.
La popolazione indigena dalla pelle bianca che si è resa responsabile di una raccapricciante ed animalesca "caccia al nero", una risposta disumana ad una protesta dai caratteri violenti, tra uomini armati di fucili, spranghe e, persino, di ruspe.
La popolazione dalla pelle bianca che ha rifiutato coscientemente ogni forma di violenza, che ha nel Comitato Civico di Rosarno la propria rappresentanza ideale, sconfitta nei suoi disperati tentativi di lasciare ancora una possibilità al dialogo, alla tolleranza e alla comprensione reciproca.
Quasi un'utopia in una terra (l'Italia) dove l'odio e la rabbia riescono a prendere il sopravvento ogni giorno su ogni altro sentimento.
E lo Stato, più di qualunque altro soggetto chiamato in causa. Capace di offrire soluzioni semplici ed inevitabili come lo spostamento forzato dei migranti locali a danno compiuto, ma incapace di agire sul territorio e contrastare le cause sociali e culturali che generano la diffusione dell'illegalità e della criminalità mafiosa.
I drammatici eventi di Rosarno (66 feriti, quattro migranti ricoverati per ferite d'arma da fuoco, centinaia di lavoratori trasferiti nei CPA di Bari, Crotone o in Sicilia) non sono certo una realtà isolata in un'Italia pacifica e legalitaria. Sono lo specchio di quelle realtà fatte di sfruttamento, di abbandono, di degrado e di disinteresse che accomunano tanti altri spaccati locali.
La filiera agricola rosarnese (lavoratori-caporali-contadini-capibastone-mafia-mercato) non è certo differente da quella di Castelvolturno, della Puglia o delle terre agricole siciliane.
E' una realtà quantomai simile ad una malattia endemica quasi impossibile da estirpare. Ma che qualcuno pensa di annientare allontanando qualche straniero e rafforzando la guardia alle frontiere.
Da Castelvolturno a Rosarno, passando per tanti altri luoghi dimenticati d'Italia, gli stranieri, africani in primis, sono chiamati a svolgere, secondo un cliché tanto banale quanto veritiero, quei lavori e quei compiti che gli italiani non svolgono più da parecchio tempo. Compreso, per dirla con le parole di Roberto Saviano, ribellarsi allo sfruttamento dei caporali e alla mafia locale.
Nulla di diverso da ciò che, nel peggiore dei modi, è accaduto negli ultimi giorni: un sussulto di rabbia, indignazione e riscatto dalle modalità indifendibili.
A conclusione di questi tragici eventi resta un paese devastato, un sostanzioso gruppo di caporali già impegnati al reclutamento di nuove braccia da sottopagare, qualche centinaio di stranieri in attesa di un destino ignoto (tra voci discordanti sulle possibili espulsioni), il suono di frasi come "Non siamo razzisti, ma o li cacciate o ne ammazziamo uno a sera", l'amarezza di parroci di zona apostrofati come "sbirri" e "venduti" e una nuova generazione di lavoratori stranieri da pagare una ventina di euro al giorno, a cui sottrarre il costo del "caporalato" e di un alloggio fatiscente.
La celebre guerra tra poveri ha raggiunto un nuovo culmine. E solo un ingenuo o un incosciente poteva immaginare che non si sarebbe mai verificata.
Come gettare una lepre minuscola in una gabbia con 10 leoni da una parte e 10 tigri dall'altra, tutti affamati all'inverosimile, e aspettare che i felini si organizzino per spartirsi la cena con forchetta e coltello.
La scena ricorda impropriamente le immagini degli autobus scolastici dell'Alabama delle prime scuole integrazioniste fatte bersaglio dell'odio bianco di allora. Impropriamente perché questa volta, a differenza di allora, ad uscirne male sono tutte le parti in campo.
I rivoltosi dalla pelle nera, ispirati dai più legittimi, encomiabili e, oserei dire, eroici sentimenti di ribellione ad una situazione di sfruttamento strutturale, ingabbiatisi da soli in uno sfogo velleitario ed indiscriminato contro l'intera popolazione bianca rosarnese.
La popolazione indigena dalla pelle bianca che si è resa responsabile di una raccapricciante ed animalesca "caccia al nero", una risposta disumana ad una protesta dai caratteri violenti, tra uomini armati di fucili, spranghe e, persino, di ruspe.
La popolazione dalla pelle bianca che ha rifiutato coscientemente ogni forma di violenza, che ha nel Comitato Civico di Rosarno la propria rappresentanza ideale, sconfitta nei suoi disperati tentativi di lasciare ancora una possibilità al dialogo, alla tolleranza e alla comprensione reciproca.
Quasi un'utopia in una terra (l'Italia) dove l'odio e la rabbia riescono a prendere il sopravvento ogni giorno su ogni altro sentimento.
E lo Stato, più di qualunque altro soggetto chiamato in causa. Capace di offrire soluzioni semplici ed inevitabili come lo spostamento forzato dei migranti locali a danno compiuto, ma incapace di agire sul territorio e contrastare le cause sociali e culturali che generano la diffusione dell'illegalità e della criminalità mafiosa.
I drammatici eventi di Rosarno (66 feriti, quattro migranti ricoverati per ferite d'arma da fuoco, centinaia di lavoratori trasferiti nei CPA di Bari, Crotone o in Sicilia) non sono certo una realtà isolata in un'Italia pacifica e legalitaria. Sono lo specchio di quelle realtà fatte di sfruttamento, di abbandono, di degrado e di disinteresse che accomunano tanti altri spaccati locali.
La filiera agricola rosarnese (lavoratori-caporali-contadini-capibastone-mafia-mercato) non è certo differente da quella di Castelvolturno, della Puglia o delle terre agricole siciliane.
E' una realtà quantomai simile ad una malattia endemica quasi impossibile da estirpare. Ma che qualcuno pensa di annientare allontanando qualche straniero e rafforzando la guardia alle frontiere.
Da Castelvolturno a Rosarno, passando per tanti altri luoghi dimenticati d'Italia, gli stranieri, africani in primis, sono chiamati a svolgere, secondo un cliché tanto banale quanto veritiero, quei lavori e quei compiti che gli italiani non svolgono più da parecchio tempo. Compreso, per dirla con le parole di Roberto Saviano, ribellarsi allo sfruttamento dei caporali e alla mafia locale.
Nulla di diverso da ciò che, nel peggiore dei modi, è accaduto negli ultimi giorni: un sussulto di rabbia, indignazione e riscatto dalle modalità indifendibili.
A conclusione di questi tragici eventi resta un paese devastato, un sostanzioso gruppo di caporali già impegnati al reclutamento di nuove braccia da sottopagare, qualche centinaio di stranieri in attesa di un destino ignoto (tra voci discordanti sulle possibili espulsioni), il suono di frasi come "Non siamo razzisti, ma o li cacciate o ne ammazziamo uno a sera", l'amarezza di parroci di zona apostrofati come "sbirri" e "venduti" e una nuova generazione di lavoratori stranieri da pagare una ventina di euro al giorno, a cui sottrarre il costo del "caporalato" e di un alloggio fatiscente.
La celebre guerra tra poveri ha raggiunto un nuovo culmine. E solo un ingenuo o un incosciente poteva immaginare che non si sarebbe mai verificata.
Come gettare una lepre minuscola in una gabbia con 10 leoni da una parte e 10 tigri dall'altra, tutti affamati all'inverosimile, e aspettare che i felini si organizzino per spartirsi la cena con forchetta e coltello.
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