07/05/11

Bobbio, Assange e la lotta al «potere invisibile».

Per chiarire l’importanza dei progetti di open government e del leaking digitale nelle democrazie contemporanee trovo sia utilissimo questo passaggio (pp. 25-27) de Il futuro della democrazia di Norberto Bobbio (1984, seconda edizione 1991). Enumerando le promesse non mantenute dalla democrazia reale rispetto a quella ideale, Bobbio parla della mancata «eliminazione del potere invisibile». E scrive:

Che la democrazia fosse nata con la prospettiva di fugare per sempre dalle società umane il potere invisibile per dar vita a un governo le cui azioni avrebbero dovuto essere compiute in pubblico [...] è ben noto. Modello della democrazia moderna fu la democrazia degli antichi, in modo particolare della piccola città di Atene, nei felici momenti in cui il popolo si riuniva nell’agorà e prendeva liberamente, alla luce del sole, le proprie decisioni dopo aver ascoltato gli oratori che illustravano i diversi punti di vista. [...] Una delle ragioni della superiorità della democrazia nei riguardi degli stati assoluti che avevano rivalutato gli arcana imperii, e difendevano con argomenti storici e politici la necessità che le grandi decisioni politiche fossero prese nei gabinetti segreti, lontani dagli sguardi indiscreti del pubblico, è fondata sulla convinzione che il governo democratico potesse finalmente dar vita alla trasparenza del potere, al «potere senza maschera».

Sembra di sentir parlare Julian Assange. Che, non a caso, nei suoi scritti del 2006 cita Theodore Roosevelt e il suo famoso invito a «distruggere il governo invisibile». Il proseguo del testo di Bobbio ne illustra le radici filosofiche:

Nell’appendice alla Pace perpetua Kant enunciò e illustrò il principio fondamentale secondo cui «Tutte le azioni relative al diritto di altri uomini la cui massima non è suscettibile di pubblicità, sono ingiuste», volendo dire che un’azione che io sono costretto a tener segreta è certamente un’azione non solo ingiusta ma tale che se fosse resa pubblica susciterebbe tale reazione da rendere impossibile il suo compimento [...]

Qui il pensiero, invece, corre a Bradley Manning, il militare sospettato di aver trafugato a WikiLeaks centinaia di migliaia di documenti riservati dagli archivi digitali degli Stati Uniti. Ammesso sia stato lui a compierla, è davvero ingiusta - alla luce del criterio kantiano - la sua azione, che lo ha condotto per molti mesi in carcere senza nemmeno un processo? Bobbio sembra dare buoni motivi per dubitarne.

[...] quale stato, per fare l’esempio addotto dallo stesso Kant, potrebbe dichiarare pubblicamente, nel momento stesso in cui stipula un trattato internazionale, che non lo osserverà? Quale pubblico funzionario può dichiarare in pubblico che userà il pubblico denaro per interessi privati?

E quale stato potrebbe condurre una guerra dettagliandone i crimini?, viene da aggiungere, pensando ai conflitti in Iraq e Afghanistan.

Da questa impostazione del problema risulta che l’obbligo della pubblicità degli atti di governo è importante non solo, come si suol dire, per consentire al cittadino di conoscere gli atti di chi detiene il potere e quindi di controllarli, ma anche perché la pubblicità è già di per se stessa una forma di controllo, è un espediente che permette di distinguere quello che è lecito da quello che non lo è. Non a caso la politica degli arcana imperii procedette di pari passo con le teorie della ragion di stato, cioè con le teorie secondo le quali è lecito allo stato ciò che non è lecito ai privati cittadini e pertanto lo stato è costretto per non dare scandalo ad agire in segreto. (Per dare un’idea della potenza eccezionale del tiranno, Platone dice che solo al tiranno è lecito fare in pubblico atti scandalosi che i comuni mortali immaginano di compiere solo nel sogno).

Tutto sommato, quella di Platone si è rivelata una posizione ottimista. Oppure dovremmo allargare l’estensione del termine «tiranno»?

Bobbio, da ultimo, propone un ragionamento di straordinaria modernità:

Inutile dire che il controllo pubblico del potere è tanto più necessario in un’era come la nostra in cui gli strumenti tecnici di cui può disporre chi detiene il potere per conoscere capillarmente tutto quel che fanno i cittadini è enormemente aumentato, è praticamente illimitato. Se ho manifestato qualche dubbio che la computer-crazia possa giovare alla democrazia governata, non ho alcun dubbio sul servizio che può rendere alla democrazia governante. L’ideale del potente è sempre stato quello di vedere ogni gesto e di ascoltare ogni parola dei suoi soggetti (possibilmente senza essere visto né ascoltato): questo ideale oggi è raggiungibile.
Nessun despota dell’antichità, nessun monarca assoluto dell’età moderna, pur circondato da mille spie, è mai riuscito ad avere sui suoi sudditi tutte quelle informazioni che il più democratico dei governi può attingere dall’uso di cervelli elettronici.

La necessità della trasparenza di cui si sono fatti portavoce i movimenti per l’open government, dagli anni 90, e il leaking digitale, a partire da WikiLeaks, è dunque un’istanza caratteristica della nostra era. Che riformula una sfida antica:

La vecchia domanda che percorre tutta la storia del pensiero politico: «Chi custodisce i custodi?» oggi si può ripetere con quest’altra formula: «Chi controlla i controllori?». Se non si riuscirà a trovare una risposta adeguata a questa domanda, la democrazia, come avvento del governo visibile, è perduta. Più che una promessa non mantenuta si tratterebbe in questo caso addirittura di una tendenza contraria alle premesse: la tendenza non già verso il massimo controllo del potere da parte dei cittadini ma al contrario verso il massimo controllo dei sudditi da parte del potere.

Ecco cosa c’è in ballo, quando si affronta il tema WikiLeaks.

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