Non c’è da dubitarne. Come non c’è da dubitare della sorpresa di Gasparri e colleghi. Evidentemente, ogni estate deve essere lo stesso. Meglio ancora: a ogni «adempimento formale» deve essere lo stesso. Gasparri, con il consueto candore, lo ammette – seppure indirettamente: «C’è semmai da chiedersi se non si debbano cambiare le regole». Insomma, stai a vedere che i fessi sono quelli che invece di starsene coi piedi a mollo hanno indossato l’abito buono e varcato la soglia di palazzo Madama. Ovvero il sottosegretario pidiellino Alberto Giorgetti, quattro temerari colleghi di partito, due senatori Idv e tre del Pd. Quattro, se si conta Vannino Chiti, che ha dovuto presiedere la breve seduta, 13 minuti in tutto, a cui Renato Schifani non ha ritenuto fosse il caso di partecipare – sollevando un vespaio di ulteriori polemiche.
Diciamo pure che allo stupore di Gasparri non si associa il nostro. Perché questa classe dirigente ci ha abituato alla delusione. E non è questione di «Casta» o assenteismo: più semplicemente, di rispetto delle istituzioni. Anche di quelle meramente «formali», «tecniche». E’ una prova di uguaglianza e umiltà: se l’impiegato, l’operaio, il precario devono tenere fede a una serie infinita di insensatezze e lungaggini burocratiche («formali», direbbe Gasparri) perché il senatore può al contrario rispondere con sufficienza, colto in fallo, che «semmai vanno cambiate le regole»?
Ancora più semplicemente, sarebbe bastato l’acume, o la mancanza di disinteresse, necessario a formulare il pensiero che, con una manovra da quasi 50 miliardi di tasse e tagli che colpisce l’intero corpo sociale, mesi di polemiche sui privilegi della politica e un quadro economico-politico di enorme incertezza, l’immagine del Senato vuoto avrebbe fatto il giro di giornali e telegiornali. E avrebbe alimentato rabbia, tensioni e malcontento.
Per questo Schifani avrebbe dovuto essere al suo posto, così come il maggior numero possibile di senatori: per dare un segnale gratuito, magari perfino innecessario del fatto che le cose stanno davvero cambiando. Invece il passato, quello che ci ha portato a questo punto, continua a ripetersi. Con la stessa arroganza di sempre: chi critica fa polemiche «becere» (Lucio Malan, Pdl), «sciocche» e «ipocrite» (Anna Finocchiaro, Pd). Così la richiesta di un eccesso di virtù in un momento di straordinaria difficoltà diventa populismo, demagogia, antipolitica. E’ anche e soprattutto per questo che la barca, per quanto dolorosamente si tappino le falle, continua ad affondare.
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