02/02/09

QUANDO L'ACQUA DIVENTA UNA MERCE

La sempre più spinta privatizzazione dei servizi pubblici, fortemente voluta dalla politica in maniera totalmente bipartisan nel corso dell’ultimo decennio, parallelamente alla trasformazione delle vecchie “municipalizzate” in società per azioni a capitale misto pubblico/privato che vengono quotate in borsa e si pongono sul mercato costruendo profitto attraverso la gestione dei servizi primari destinati ai cittadini (smaltimento rifiuti, acqua, distribuzione del gas, trasporti) sta iniziando a produrre risultati catastrofici in termine di qualità dei servizi ed incremento del costo delle tariffe, ormai sempre più slegate da qualsiasi logica volta a salvaguardare gli interessi della collettività.
Emblematico a questo riguardo è sicuramente quanto accaduto ad Aprilia nel 2005, dove la gestione della distribuzione dell’acqua da parte della società Acqualatina, partecipata al 46,5% dalla multinazionale francese Veolia, ha comportato incrementi delle bollette nell’ordine del 300%, determinando una vera e propria sollevazione popolare da parte di oltre 4000 famiglie che si rifiutano di fare fronte ad un salasso di questo genere.

Forti preoccupazioni a questo riguardo stanno suscitando le novità in tema di liberalizzazioni dei servizi pubblici, introdotte dal decreto Tremonti che mira a liberalizzare la gestione dei servizi pubblici locali, affidandoli a società private o pubblico/private all’interno delle quali il socio privato non detenga una quota inferiore al 30%. Particolare apprensione è stata determinata dall’approvazione, avvenuta lo scorso 5 agosto, dell’articolo 23 bis del decreto legge 112 che di fatto sottomette alle regole di mercato la gestione dei servizi idrici, snaturando la figura stessa dei “Comuni” che da enti deputati ad operare nell’interesse collettivo si trasformano in soggetti finalizzati alla costruzione del profitto proprio attraverso la gestione privatistica di quei beni, come l’acqua, che dovrebbero essere patrimonio di tutti. Il provvedimento in questione si pone oltretutto in contrasto con il codice civile, laddove lo stesso afferma che “i beni demaniali sono sottoposti ad un particolare regime giuridico, che li pone fuori commercio, essi sono inalienabili e imprescrittibili: non se ne può acquistare la proprietà a nessun titolo, nemmeno per usucapione.I beni demaniali sono infruttiferi: non procurano entrate, se non occasionalmente, quando siano dati in concessione”. Dal momento che gli acquedotti rientrano nel novero dei beni demaniali sarebbe alquanto azzardato giustificare come “occasionale” la loro concessione a delle società per azioni che dalla gestione di un bene inalienabile come l’acqua ricaveranno profitti continuativi.

Il decreto Tremonti rappresenta solamente il terminale di tutta una lunga serie di leggi e provvedimenti che a partire dagli anni 90 hanno progressivamente svenduto il patrimonio pubblico, contribuendo a creare monopoli privati o pubblico/privati che gestiscono i servizi primari per i cittadini unicamente nell’ottica della massimizzazione del profitto.
Oggi in Italia le condizioni della rete idrica risultano essere estremamente precarie a causa della scarsità d’investimenti pubblici e della loro cattiva gestione, facendo si che quasi un terzo dell’acqua incanalata nelle tubature si disperda prima di arrivare nelle abitazioni. Una situazione che potrebbe per molti versi favorire chiunque intenda subentrare al pubblico nella gestione degli acquedotti, mirando ad ottenere il controllo del business relativo alla distribuzione della “merce acqua” che costituisce un obiettivo assai ambito in quanto potenzialmente in grado di generare enormi profitti.

La spesa degli italiani per l’acqua, attualmente in media circa 250 euro a famiglia (ma la distribuzione è assai irregolare e si va da un minimo di 81 euro ad un massimo di 587 euro) risulta essere ancora generalmente sostenibile, ma negli ultimi 10 anni le bollette sono incrementate mediamente del 61% e inoltre un italiano su tre è costretto a pagare una bolletta irregolare (sentenza 335 del 10 ottobre 2008 della corte Costituzionale) in quanto versa contributi per depuratori che non esistono o non sono funzionanti.L’apertura ai privati e la volontà di trasformare il bene acqua in una merce che sarà venduta a caro prezzo da multinazionali come Veolia, già specializzate nel settore, o dalle multiutility quotate in borsa come A2A ed Hera che oggi accumulano fortune miliardarie attraverso l'incenerimento dei rifiuti, non induce purtroppo ad essere ottimisti. Anche la voce “acqua” sarà infatti destinata fra qualche anno ad incidere in maniera significativa (e forse insostenibile) all’interno dei sempre più scarni bilanci familiari degli italiani.

di Marco Cedolin

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